Lettura di Inferno XXXII

Rispetto alla continuità narrativa della Commedia, il canto XXXII dell’Inferno si apre, come noto, con una frattura: tra il gesto, su cui si chiude il canto XXXI, di Anteo che «come albero in nave si levò» dopo aver deposto Dante e Virgilio su Cocito e la prosecuzione (e conclusione) del viaggio infernale attraverso il lago ghiacciato, Dante sente il bisogno di inserire un prologo che delimiti l’ultima tranche narrativa dedicata al nono cerchio.

[Con questo contributo inizia la collaborazione ad «Italianistica Online» di Marco Berisso (n.d.r.)] *

Il prologo ha la funzione di segnare un confine, di istituire attraverso un nuovo inizio una sorta di sezione interna alla cantica: un insieme di canti che sta a sé per materia e, se si vuole, per forma linguistica, ma che ha anche e soprattutto, giunti infine al «fondo» dell’«universo» dantesco, l’obiettivo di fornire una chiave di lettura, quasi una moralità all’intera prima tappa del viaggio ultraterreno. E se l’Inferno è la cantica in cui la storia umana viene letta come cumulo insensato di odio e violenza, all’insegna dell’«invidia» (pensiamo alle profezie di Ciacco e Brunetto o all’autobiografia di Piero della Vigna) che Dante ha subìto come individuo e come appartenente ad una comunità, la sua chiusura non potrà che essere politica.

Il prologo a cui accennavo occupa le prime cinque terzine del canto: nelle prime tre viene espressa l’inadeguatezza della poesia umana a fronte dell’orrendo spettacolo del «tristo buco» in cui consiste il nono cerchio. Cocito, insomma, viene subito determinato agli occhi del lettore attraverso due tratti caratteristici e compresenti: l’essere insieme un luogo orribilmente profondo («pozzo scuro», v. 16) e il limite inferiore di ogni realtà terrena, «lo mezzo / al quale ogne gravezza si rauna» (vv. 73-74), il centro che attira su di sé ogni forza di gravità. Per descriverlo, dunque, non esistono «rime aspre e chioccie» che siano all’altezza: dove «aspro» sarà da intendersi come indicazione fonica, equivalente di ‘difficile’, e quindi non in senso necessariamente negativo («rima aspra e sottile» è l’autodefinizione che Dante dà al v. 13 della canzone del Convivio, IV ii, Le dolci rime), senso che invece deriva dall’altro aggettivo, «chioccie», che tutti i commentatori hanno da sempre messo in rapporto con la «voce chioccia» di Pluto in Inf. VII 2.

Come ha notato la Chiavacci Leonardi nel suo commento alla Commedia, se Dante afferma di non possedere tali rime significa, in buona sostanza, che tali rime non esistono e che dunque è impossibile dare una forma scritta e tangibile («premere… il suco»), nel momento presente della stesura del poema, al «concetto», cioè all’immagine mentale che Dante ha portato con sé dell’ultimo cerchio.

Vale la pena di notare un particolare, proprio in riferimento all’evocazione delle «rime aspre e chiocce» e che suona a conferma dell’ipotesi interpretativa della Chiavacci Leonardi a cui accennavo. Da un controllo del rimario dantesco risultano 240 casi di quelle che potremmo definire ‘rime uniche’, rime, cioè, che Dante utilizza una sola volta in tutta la Commedia1. Rispetto alla media (non altissima) nel ricorso a tali rime, il nostro canto rappresenta un eccezione: ne ha sette, infatti, superato solo dal già citato Inf. VII, il canto aperto da Pluto e quello più ‘aspro’ quanto a sonorità desinenti. Il dato assume però un significato a mio avviso ancora più forte quando si nota che ben quattro di queste sette rime uniche risultano concentrate in sequenza proprio in queste prime cinque terzine del prologo al canto, quelle in cui si proclama l’impossibilità di trovare versi adatti a descrivere il «suco» di una simile, orrenda visione2. È come se Dante, insomma, abbia voluto dimostrare in re, proprio nel mentre denuncia la mancanza di rime adatte al «tristo buco», la propria totale padronanza di ogni rima possibile, incluse le più rare e inusitate, affiancando alla massima dichiarazione di impotenza la dimostrazione pratica e persino orgogliosa della propria statura di poeta.

È stato notato da molti come la dichiarazione di impotenza ad affrontare l’argomento e l’invocazione di aiuto (qui alle Musa, là a Dio) che occupano i vv. 7-12 siano da porre in speculare rapporto (anche nel recupero dell’immagine della capacità linguistica e intellettiva dell’uomo che si riduce allo stadio infantile di fronte all’incomprensibile) con quella della visione finale del poema3. L’infinitamente malvagio e l’infinitamente buono sono, insomma, seppure per diversi motivi, parimenti ineffabili. Questo non vuol dire, comunque, che l’esordio di Inf. XXXII non abbia precedenti nella prima cantica. La medesima dinamica di sproporzione tra «rime» disponibili e «suco» del proprio «concetto», di timore di non riuscire a fornire un’adeguata forma verbale a quanto riposto nella memoria del viator così da ottenere che «dal fatto il dir non sia diverso» era infatti apparsa già di fronte alla visione macabra e cruenta della bolgia dei seminatori di scisma4:

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’hanno a tanto comprender poco seno.

La sovrapponibilità dei due esordi, come si vede, è pressoché assoluta, persino, se si vuole, per il ricorrere di un equipollente lessico tecnico-letterario (là le «parole sciolte», nel nostro canto le «rime aspre»). Ma il ponte è ancora più pregnante perché collega il lago ghiacciato dei traditori al catino insanguinato dei seminatori di discordia, iscrivendo la cantica una volta di più nel segno delle divisioni tra fazioni, cioè del più ossessivo fantasma per il Dante poeta-storiografo militante. In questa chiave, come noto, un’ulteriore tessera proviene, attraverso l’invocazione alle Muse del nostro canto, dal richiamo al mito di Anfione, il leggendario fondatore di Tebe (vv. 10-12).

Tutto Cocito è iscritto nel segno della "novella Tebe" (come verrà apostrofata Pisa nel canto successivo, Inf. XXXIII 89), della città simbolo per l’immaginario medievale della discordia civile condotta sino al parossismo5, partendo da questa iniziale evocazione di Anfione, passando attraverso la vicenda di Eteocle e Polinice adombrata nei due fratelli Napoleone e Alessandro degli Alberti e l’episodio di Tideo e Menalippo cruentemente restituito da Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri, sino appunto all’invettiva contro Pisa. La storia contemporanea a Dante, insomma, non è solo la protagonista indiscussa degli ultimi canti infernali ma viene dal nostro poeta percepita e presentata come incarnazione del male assoluto, un Inferno che si rovescia nell’aldiqua devastando le vite e gli affetti degli esseri umani. Si rovescia nell’aldiqua proprio alla lettera: non sarà un caso che nel canto successivo troveremo in Tolomea, la terza zona di Cocito, delle anime dannate prima della morte i cui corpi sono abitati da demoni. Con l’Inferno, insomma, secondo Dante, si convive quotidiaidnte, per quanto atroce e paradossale questo possa apparire.

L’ultima terzina del prologo, vv. 13-15, ci può fornire, attraverso la rielaborazione di una citazione evangelica (Matth. 26, 24: «bonum erat ei si natus non fuisset homo ille», riferito proprio a Giuda e da Dante restituito con «mei foste state qui pecore o zebe!») la spiegazione direi quasi razionale dell’atteggiamento sprezzante e persino crudele che Dante avrà nei confronti dei peccatori di questo ultimo cerchio (segnatamente Bocca degli Abati in questo canto e frate Alberigo dei Manfredi nel successivo), un atteggiamento che in passato ha lasciato perplessi alcuni commentatori, soprattutto paragonandolo alla cortesia (che nei casi peggiori è comunque almeno formalmente conservata) che il viator dimostra di solito nei confronti degi interlocutori in cui si imbatte nella prima cantica. Il fatto è che quella che Dante qui si appresta ad incontrare è «sovra tutte mal creata plebe», la feccia peggiore di ogni umanità, inferiore agli inferiori tra gli animali non senzienti. Nei confronti di costoro, insomma, non solo è inutile ogni pietà residua ma è quasi opportuno, se se ne presta l’occasione, diventare uno strumento ulteriore della vendetta divina. Perciò quando Bocca qualche verso più in là penserà che Dante, colpendolo, sia venuto «a crescer la vendetta / di Montaperti» finirà col dire qualcosa che noi dobbiamo prendere, magari solo per paradosso, ma paradosso fruttifero, assolutamente sul serio. Dante, in un certo senso, è lì proprio per questo, per gravare questa «sovra tutte mal creata plebe» di una eventuale pena ulteriore e, ancor di più, di perpetuarne l’infamia nei secoli futuri registrandone le vicende nelle «note» apprestate per il poema.

Concluso il prologo, il canto si snoda in tre parti, marcate da proposizioni temporali secondo una tecnica tipica della Commedia. La prima parte va dal v. 16 al v. 69 ed è dedicata alla descrizione di Cocito e alle anime che occupano la prima delle sue zone, Caina, quella in cui sono puniti i traditori dei parenti. La seconda, dal v. 70 al v. 123, riguarda invece la seconda zona, Antenora, quella in cui sono puniti i traditori della patria. La terza e ultima parte, la più breve, dal v. 124 al v. 139, ultimo del canto (cinque terzine più il verso finale), presenta l’orrendo quadro di Ugolino dedito a divorare il cranio di Ruggieri.

Tutte e tre le parti si concludono con un gruppo di terzine in discorso diretto, ma le corrispondenze più forti sono tra la prima e la seconda parte. In esse, infatti, il discorso diretto è pronunciato da uno dei dannati (il primo da Camicione dei Pazzi, l’altro da Bocca degli Abati) e in ciascuna di queste allocuzioni vengono nominati altri cinque personaggi puniti in quella stessa zona del cerchio (uno solo in ciascuno dei due gruppi, rispettivamente Mordret e Gano di Maganza, appartiene non alla cronaca ma alla tradizione letteraria, con il risultato aggiuntivo di fondere nell’abisso infernale la materia bretone a quella carolingia).

Altro elemento di unione tra le due parti è la presenza di una seconda voce che interloquisce all’improvviso e che occupa una terzina (vv. 19-21 e vv. 106-108): nella prima parte questa voce è anonima, anche se la maggior parte dei commentatori pensa a quella di uno dei due fratelli Alberti6, mentre nella seconda la «lingua pronta» è quella di Buoso da Duera. Le due parti, infine, hanno esattamente la stessa lunghezza, così che il canto si presenta secondo un modello di ripartizione numerica esattissima (15 versi di prologo, 54 versi per la prima parte, 54 versi per la seconda, 15 versi per la terza, più il verso necessario a chiudere la rima altrimenti irrelata dell’ultima terzina).

La prima parte riprende, dopo la parentesi del prologo, il racconto interrotto col finale del canto XXXI. Dante sta ancora contemplando «l’alto muro» che delimita l’ultimo cerchio quando sente appunto quella voce a cui accennavo prima che lo prega di non calpestare le teste dei «fratei». C’è in tutto questo canto un’insistenza quasi ossessiva su vocaboli che rinviano alla testa e al volto7. Non è, mi pare, elemento attribuibile solo a ragioni di realismo descrittivo, per quanto quest’ultimo sia un dato ovviamente ineliminabile. È proprio un cattivo uso della testa, per dire così, che caratterizza questi più di ogni altro dannato infernale, rendendoli perciò peggiori rispetto a «pecore o zebe». Non è qui ovviamente il caso di aprire una digressione di questa portata, ma l’uso malvagio (pensiamo ai consiglieri di frode) dell’intelligenza umana è certamente uno dei tratti tipici dell’umanità peccatrice, e quanto più si sprofonda nei cerchi tanto più un tale abuso è per Dante evidente e da stigmatizzare. Al contrappasso del gelo, che nel traditore ha soffocato in vita i sentimenti più sacri dell’uomo (l’amore verso i parenti e la patria, il rispetto per chi si affida a noi come ospite, la devozione verso i benefattori), si può aggiungere, per le prime tre zone di Cocito, anche quello di una testa che da sede del raziocinio si è ormai ridotta a semplice strumento di una pena ulteriore.

La descrizione di Cocito (vv. 22-30) presenta una delle caratteristiche iperboli cui Dante ricorre per dichiarare l’incomparabilità del paesaggio infernale con quello terreno, con l’accostamento (anche questo usuale, basti pensare a Inf. IX, con Arles e Pola, o Inf. XV, con le Fiandre e Brenta) di elementi geografici esotici ad altri italiani: la crosta del lago è così spessa che neppure i fiumi Danubio («Danoia») e Don («Tanai»), quando ghiacciano in inverno, sono ad essa paragonabili, e che neppure due montagne come la Tambura («Tambernicchi») e la Pania («Pietrapana») nelle Alpi Apuane potrebbero, cadendovi in mezzo, incrinarne la superficie neppure «da l’orlo», dove essa è più sottile.

Se Cocito è irriducibile a misure geografiche terrene, la prima descrizione dei dannati è invece intenzioanlmente ridotta ad una misura animale. È pur vero che anche le comparazioni tra dannati e elementi tratti dal mondo animale sono frequentissime nella prima cantica: basti pensare, per fare un esempio persino famigerato da quanto è famoso, a Paolo e Francesca che si avvicinano «Quali colombe dal disio chiamate», o anche, per un caso di ben diverso timbro, a Ciampolo di Navarra che si sprofonda nella pece impedendo ad Alichino di riacciuffarlo, paragonati l’uno all’«anitra» che «di botto […] giù s’attuffa» e l’altro al «falcon» che prima «s’appressa» e poi «ritorna sù crucciato e rotto»8.

Ma già l’accostamento di due passi così diversi ci dice che seppure è uguale la strumentazione retorica, evidentemente diversa è la funzione tonale a cui essa viene di volta in volta adibita da Dante. Così, per il nostro canto, nella «rana» che sta «col muso fuor de l’acqua» e nei denti che battono «in nota di cicogna» sarà da avvertire una prosecuzione dell’animalità dei traditori, del loro essere meno e peggio di pecore e capre. Non a caso i due fratelli si scaglieranno l’uno contro l’altro, in un gesto di ira irrefrenabile, come «becchi» (v. 51), non a caso il colore del viso dei dannati è «cagnazzo» (v. 70) e non a caso Bocca degli Abati non urla ma «latra» (vv. 105 e 108). Mi risulta pertanto assai difficile avvertire nell’evocazione dell’estate dei vv. 32-33 («quando sogna / di spigolar sovente la villana») un qualsiasi tono elegiaco o bucolico, come pure alcuni hanno voluto.

Penso ad esempio a un pur finissimo lettore come Momigliano che, proprio in virtù della sua intelligenza, apre in effetti la nota di commento a questi con versi con «Il paragone con i confitti è grottesco», ma poi procede, pagando pegno a certe sue predilezioni teoriche, parlando di «schietta freschezza idillica» e di «isolata serenità di canto». Sarà semmai più opportuno pensare, con fa tra gli altri la Chiavacci Leonardi, ad un calibrato gioco di contrapposizione (e quindi, appunto, ad una ironico rovesciamento) tra la notte estiva del comparando e quella gelida del comparato. Quanto poi alla cicogna, il rumore da lei prodotto non è forse soltanto un utile termine di paragone per restituire il battere dei denti dei dannati. Le cicogne, infatti, come dice ad esempio il Tesoro volgarizzato, «sono senza lingua, e per ciò fanno gran romore col becco, battendolo molto insieme».

Ancora una volta, insomma, questi peccatori sono definiti da Dante per sottrazione: privi di lingua come cicogne, e quindi privi di voce e di parola. Sappiamo già che questo non è del tutto vero e che i personaggi di questo canto parleranno, quando sarà il momento: ma questo non toglie che le loro parole esploderanno in un silenzio irreale, che toccherà il proprio tragico culmine nelle figure invetrate dentro il ghiaccio dell’ultima parte di Cocito, Giudecca. L’abuso della parola, come già quello dell’intelletto, è un altro tratto caratteristico del traditore, e Dante sembra pensare proprio a questo trasformando la voce dei dannati in un reiterato battito di denti «in nota di cicogna».

Nell’ultima terzina di presentazione dei dannati di Cocito, infine, vengono segnalati due elementi caratteristici del nono cerchio: il primo è il pianto dei peccatori (pianto dovuto all’ira e al dolore fisico, come si capirà anche in seguito, non certo al pentimento), il secondo, conseguente ad esso, il fatto che essi rivolgono il viso verso il basso, per evitare che il freddo ghiacci loro le lacrime negli occhi. Anche la vista, dunque, è negata a questi dannati9, costretti nell’eternità a non rivelare quello che provano e a celare il loro aspetto così come in vita hanno sempre celato e non rivelato le loro vere intenzioni.

[Continua la lettura…]


* Queste pagine sono il resoconto scritto di una "lectura Dantis" che ho tenuto all’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona il 23 febbraio 2004. Ho deciso di mantenerle in una forma il più possibile vicina a quella originaria, in particolare evitando, in linea di massima, riferimenti precisi alla tradizione dei commenti e delle letture di questo canto, tradizione della quale sono però inevitabilmente e profondamente debitore. [La codifica digitale della presente versione online è stata curata da Luigi M. Reale, che ha provveduto anche all’integrazione dei collegamenti ipertestuali.] | Torna al testo

1 Sono 93 nell’Inferno, 71 nel Purgatorio e 76 nel Paradiso. Sia chiaro che non necessariamente queste ‘rime uniche’ sono anche rime difficili, e va aggiunto che in alcuni casi l’unicità è dovuta al ricorso a strumenti linguistici altri rispetto all’italiano (ad esempio il provenzale per Arnaut Daniel o il latino).

2 Sono le rime -occe (1 : 3), -uco (2 : 4 : 6), -abbo (5 : 7 : 9) e -ebe (11 : 13 : 15). Le altre due rime (-erso, 8 : 10 : 12, e -uro, 14 : 16 : 18, ma solo il v. 14 ovviamente rientra nel prologo), non infrequenti nell’usus della Commedia, si caratterizzano comunque per una loro asprezza, ed il v. 14, comunque, riprende eponimamente in chiusura del prologo proprio il concetto centrale dell’impossibilità di adeguare il «fatto» al «dir», evocando in Cocito il loco «onde parlare è duro». Concludo ricordando, a proposito delle «rime aspre», che sono stati comunque già individuati dalla critica i precisi riscontri che legano questo canto al «parlar […] aspro» della canzone Così nel mio parlar vogli’ essere aspro (riscontri anche, in un certo senso, sconcertanti, come quello tra l’atto di violenza che Dante compie nei confronti di Bocca e i vv. 63-65 della canzone).

3 Par. XXXIII 55-75, 106-108 e 121-123.

4 Inf. XXVIII 1-6.

5 Come afferma Benevenuto da Imola commentando proprio i vv. 10-12: «Civitas enim Thebarum fuit olim plena magnis parricidiis et maleficiis».

6 Non è comunque interpretabile altrimenti che in riferimento a questi due personaggi il «fratei» del v. 21 («va sì che tu non calchi / le teste de’ fratei miseri lassi»), non fosse altro in considerazione di quanto dicevo prima circa l’atteggiamento di Dante poeta-personaggio nei confronti dei dannati di questo cerchio che esclude ogni ombra di partecipazione umana alle loro vicende. Persino la divisone netta in due sezioni distinte dell’episodio di Ugolino partecipa di questo clima generale, se è vero che il pathos e la pietà cadono per intero nel canto successivo, mentre nel nostro l’immagine del nobile pisano resta sigillata nella macabra messinscena antropofaga.

7 Oltre alle «teste» del v. 21 si veda v. 34 «là dove appar vergogna»; v. 37 «tenea volta la faccia»; v. 42 «’l pel del capo»; v. 45 «li visi»; v. 53 «col viso in giùe»; vv. 63-64 «questi che m’ingombra / col capo»; v. 70 «mille visi cagnazzi»; v. 77 «passeggiando tra le teste»; v. 89 «le gote»; v. 97 «la cuticagna»; v. 102 «in sul capo mi tomi»; v. 126 «l’un capo a l’altro era cappello»; v. 129 «là ‘ve ‘l cervel s’aggiugne con la nuca»; v. 131 «le tempie»; v. 132 «il teschio e l’altre cose».

8 Inf. XXII 130-132.

9 In Tolomea una pena aggiuntiva per i dannati sarà l’essere costretti a rivolgere il viso verso l’alto con la conseguenza (come dirà a Inf. XXXIII 113 frate Alberigo) di non poter dare sfogo al «duol che ‘l cor […] impregna».


Questo articolo si può citare nel seguente modo:
Marco Berisso, Lettura di Inferno XXXII, in «Italianistica Online», 11 Marzo 2005, http://www.italianisticaonline.it/2005/lettura-inferno-32/

Questo articolo


Non è possibile commentare questo articolo.

Commenti non ammessi.


A proposito...

Italianistica Online è un progetto di informatica umanistica. Si occupa specificamente di italianistica in rete, non di italianistica tout court. Seleziona e segnala risorse telematiche. Mira alla valorizzazione degli strumenti digitali e della rete come ambiente per lo sviluppo della ricerca in maniera democratica. Sostiene le pratiche dell’archiviazione e dell’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche.