Lettura di Inferno XXXII

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Il primo incontro, a cui ho già accennato, è quello con Napoleone e Alessandro degli Alberti: figure mute, costrette a convivere in eterno «sì stretti / che ‘l pel del capo avieno insieme misto» (vv. 41-42): figli entrambi del conte Alberto di Mangona, i due contesero a lungo per questioni territoriali sino ad arrivare, novelli Eteocle e Polinice, ad uccidersi a vicenda, tra il 1282 e il 1286. L’«ira» che li pervade e che li spinge «come due becchi» a «cozzare insieme» come nel tentativo di liberarsi dall’imprevisto e doloroso congelarsi delle lacrime negli occhi è tanto più terribile in quanto è l’unica reazione, bestiale, appunto, e muta, a Dante che chiedeva notizie sulla loro identità. Non mi sembra sia stato a sufficienza notato (ma è un motivo invece spesso presente nei commentatori antichi, dal Buti al Vellutello) come questa «ira» sia causata principalmente dal fatto che i due hanno ceduto all’atto istintivo di «piegare i colli» per guardare in direzione di Dante. La rabbia cieca e irrefrenabile che ne scaturisce è dovuta principalmente al concorrere, quindi, di un moto di reattività istintiva e della sensazione che immediatamente ne segue di essere stati in qualche modo ingannati dal proprio cedere ad una reazione tanto umana; e, nel contempo, questa rabbia richiama anche quella di altri abitanti del regno infernale, dai Malebranche a (e non per caso) Filippo Argenti, il quale, sbugiardato da Dante e respinto da Virgilio nel fango di Stinge, «in sé medesmo si volvea co’ denti».

La prima parte del canto si chiude col ciarliero elenco dei dannati di Caina ad opera di Alberto dei Pazzi detto Camicione, omicida del proprio congiunto Ubertino. Le terzine hanno spesso evocato nei lettori l’episodio di Maestro Adamo e Sinone (ma Camicione ricopre, per così dire, entrambi i ruoli) e concorre senza dubbio alla suggestione l’apparizione grottesca di Camicione «ch’avea perduti ambo li orecchi / per la freddura», deturpato dunque nell’aspetto fisico come lo erano i falsari. Concorre anche il tono sarcastico delle sue parole: da «Perché cotanto in noi ti specchi?», con allusione alle virtù riflettenti del ghiaccio infernale (l’unico modo con cui Dante può guardare ed essere visto dai dannati a capo chino è appunto il riflesso su questo ghiaccio che «avea di vetro e non d’acqua sembiante») ma anche, ironicamente, ad uno ’specchiarsi’ vanitoso, all’uso antifrastico di «degna» per indicare la totale indegnità dei fratelli Alberti, all’«esser fitta in gelatina» che gioca sarcasticamente con la metafora culinaria, sino ai pochi cenni dedicati agli altri dannati, quasi strizzando l’occhio al poeta-ascoltatore (il pistoiese Vanni dei Cancellieri detto Focaccia, il fiorentino Sassolo Mascheroni: appena di più lo spazio per Mordret, ma in compenso se ne tace il nome) e allo sbrigativo congedo con cui il dannato si autodenuncia, salvo poi, compiaciuto, aggiungere in extremis il nome del parente Carlino dei Pazzi, che nel 1302 venderà ai Neri quel castello di Piantravigne che invece avrebbe dovuto difendere per conto dei Bianchi, e che quindi lo supererà per infamia destinanto com’è ad Antenora10. Le parole di Camicione, comunque, non provocano alcuna reazione in Dante: caso strano, visto che quasi sempre il nostro si mostra curioso delle vicende terrene dei dannati. Ma evidentemente c’era qualcosa di più pressante.

Ci si avvicina infatti, una volta entrati in Antenora, al culmine del canto, l’incontro con Bocca degli Abati, preparato (come è stato notato tra gli altri da Pèzard) da una nota probabilmente autobiografica. La visione dei «mille visi cagnazzi» confitti in Cocito e «l’etterno rezzo» colpiscono infatti a tal punto Dante da lasciargli per sempre «riprezzo / […] de’ gelati guazzi». Nota autobiografica, dicevo, perché nella memoria di Dante e in questo rabbrividire per il freddo avrà agito il rigidissimo inverno del 1302-1303, il primo trascorso da Dante in esilio in Toscana. Abbiamo insomma una prima seppure indiretta traccia di quel coinvolgimento in prima persona del poeta in quanto uomo di passioni politiche nella narrazione che sfocierà da lì a poco nella violenza esercitata sul traditore Bocca. La terzina che prepara lo scontro («se voler fu o destino o fortuna, / non so; ma, passeggiando tra le teste, / forte percossi ‘l piè nel viso ad una») è tra le più discusse del canto. Credo abbiano ragione Bosco e Reggio quando sottolineano che «volere», «destino» e «fortuna» sono «tre strumenti diversi d’una unica volontà di punizione» che Dante, per mandato divino, è qui condotto ad esercitare, come pure quando notano che «forte percossi ‘l piè» indica un vero e proprio calcio sferrato, non un semplice ed accidentale inciampare.

La stessa reazione di Bocca, lo ripeto, sembra riferirsi a questo, nel chiedersi se lo sconosciuto che lo colpisce sia venuto lì «a crescer la vendetta / di Montaperti». Del resto il «volere», che è il «modo» di «pervenire ad alcuna cosa […] per proprio studio», come afferma l’Ottimo, non è affatto escluso da Dante ma posto sullo stesso piano delle altre due cause. Il problema è che Bocca degli Abati (e quello che si potrebbe definire il ‘trauma di Montaperti’) rappresentano per Dante una delle più compiute realizzazioni della storia come «novella Tebe». Sulla figura di Bocca c’è uno strano equivoco perpetuato nei commenti soprattutto moderni11 e originato forse da un paio di quelli antichi12: tutti questi, insomma, affermano che Bocca degli Abati era un nobile guelfo, là dove la famiglia Abati era semmai una delle più illustri casate ghibelline di Firenze13. La questione è che Montaperti non è una battaglia tra guelfi e ghibellini, o almeno non lo è nelle sue premesse, ma lo diventa solo nel suo esito finale.

Usiamo come guida la narrazione che dell’episodio fa, in alcune delle sue pagine migliori, Giovanni Villani nella Nuova Cronica (VII lxxviii). Montaperti è in origine uno degli episodi della lotta comunale tra Firenze e Siena. L’esercito fiorentino, inferiore di numero, riteneva di poter entrare nella città di Montalcino senza combattere. Questo almeno gli avevano fatto credere alcuni cittadini di parte ghibellina, che in realtà stavano tramando nell’ombra per risolvere una volta per tutte le lotte partigiane interne alla città. Così, quando all’improvviso l’esercito fiorentino vide uscire il nemico dalla porta pronto alla battaglia e rafforzato dai contingenti inviati da Manfredi «sì·ssi maravigliarono forte e non sanza isbigottimento grande, veggendo il sùbito avenimento e assalto non proveduto». Ma «maggiormente gli fece isbigottire che più Ghibellini ch’erano nel campo [dei fiorentini] a cavallo e a pié, veggendo appressare le schiere de’ nemici, com’era ordinato il tradimento, si fuggirono da l’altra parte; e ciò furono di que’ della Pressa, e degli Abati, e più altri».

È a questo punto che si colloca l’episodio di cui Bocca è triste protagonista: nel mentre «la schiera de’ Tedeschi rovinosamente percosse la schiera de’ cavalieri de’ Fiorentini ov’era la ‘nsegna della cavalleria del Comune, la quale portava messer Iacopo del Naca della casa de’ Pazzi di Firenze, uomo di grande valore, il traditore di messer Bocca degli Abati, ch’era in sua schiera e presso di lui, colla spada fedì il detto messer Iacopo e tagliogli la mano co la quale tenea la detta insegna, e ivi fu morto di presente». L’abbattimento dell’insegna è il segno visibile del tradimento avvenuto, tant’è che «perché la cavalleria di Firenze prima s’avidono del tradimento, non ne rimasono che XXXVI uomini in nome di cavallate tra morti e presi», cioè un numero irrisorio, vista la conseguente carneficina di quel giorno (Villani parla di 2.500 morti e più di 1.500 prigionieri, che sono cifre ancora oggi terribili, ma devastanti per quell’epoca); e, in più, il gesto di Bocca rappresenta sintomaticamente anche la causa profonda della sconfitta dei fiorentini.

Quello che ci chiarisce Villani e che perciò spiega il significato che Montaperti ha assunto per Dante, è insomma che in quella battaglia ci furono uomini che misero gli interessi di parte al di sopra del bene della patria comune: Montaperti, insomma, rappresenta il sanguinoso inizio di quella rovinosa decadenza di Firenze travolta dalle lotte intestine che culminerà, appunto, con la cacciata dei Bianchi dalla città (al punto che si potrebbe dire che il tradimento di Bocca prefigura in un certo modo quello di Carlo di Valois). Quando dopo il 1266 i Guelfi fiorentini tornarono in città cacciandone i Ghibellini, Bocca degli Abati venne semplicemente esiliato, il che significa che non gli si poté attribuire con certezza la paternità dell’infame gesto di Montaperti. Che Dante dunque insista per avere la certezza di ciò che ha intuito sull’identità del dannato, dando, per la prima ed unica volta nella Commedia, un vero e proprio ordine a Virgilio («Maestro mio, or qui m’aspetta, / sì ch’io esca d’un dubbio per costui; / poi mi farai, quantunque vorrai, fretta»14) si spiega quindi a sufficienza dal punto di vista storico. Ma conta ancora di più che egli voglia approfittare dell’insperata occasione per vendicare quel trauma. Le parole iniziali di Dante a Bocca, così simili a quelle già rivolte a Guido da Montefeltro15, suonano qui inevitabilmente false: Dante sa già chi ha di fronte, lo sa perché il calcio sferrato contro il suo viso è stato necessitato dalla volontà divina che ha predisposto quell’incontro perché lui «esca d’un dubbio».

Nonostante l’ostinazione del dannato a tacere, il nome infatti alla fine verrà pronunciato («Che hai tu, Bocca?»), e le «note» per la Commedia lo includeranno «a la sua onta». La tensione dell’episodio si scarica in quello stesso preciso istante e Dante dopo è dichiaratamente (come già era successo con Camicione dei Pazzi, ma qui con una ben più acuta forza storica e morale) disinteressato a qualsiasi cosa possa dire il «malvagio traditor»: «non vo’ che tu favelle», proprio, ‘non voglio starti ad ascoltare’. Nelle successive terzine Bocca rivelerà prima il nome di chi lo ha smascherato, il cremonese Buoso da Duera, che aveva tradito proprio Manfredi lasciando passare presso Parma l’esercito di Carlo d’Angiò, poi quelli di Tesauro dei Beccheria16, di Gianni dei Soldanieri17, di Gano di Maganza e, infine, di Tebaldello degli Zambrasi da Faenza18: ma le sue parole sono come in dissolvenza, bruciate dall’ormai progressivo allontanarsi di Dante dalla scena.

L’orrore della storia contemporanea come incarnazione del male, come regno della «novella Tebe» da contrapporre ad ogni Gerusalemme Celeste, un orrore che risuona nei nomi dei traditori di Antenora e che copre più di cinquant’anni di storia, sta per raggiungere una successiva tappa con la vicenda di Ugolino. Come sanno tutti, il canto in cui la sua storia verrà rivelata è quello successivo: la parte finale del nostro ha però il compito di creare la scena, orribile, per quel monologo. Dante spende le prime tre terzine di questo finale, dal v. 124 al v. 132, per raccontare l’inenarrabile, ovvero l’antropofagia, resa tanto più atroce di quella staziana, esplicitamente evocata, dal fatto che Menalippo non poteva sentire il dolore del «rodere» di Tideo, mentre l’arcivescovo Ruggieri, evidentemente, può e deve subirlo19.

Si è detto spesso (lo ripete da ultimo anche la Chiavacci Leonardi) che il verso «il teschio e l’altre cose» rappresenta da parte di Dante (cito le parole della studiosa) una «indicazione generica» che «evita l’indugio sui particolari macabri e disgustosi, che invece non mancano nel testo di Stazio». La mia impressione è che, piuttosto, in questa stessa genericità e nell’evocazione attraverso comparazioni prese dalla vita più quotidiana e banale (la testa di Ugolino che è così sovrapposta a quella di Ruggieri da fargli da cappello, il suo mordergli il cervello e il midollo spinale con la stessa foga di uno che ha fame e mangia del pane) ci sia il culmine del macabro, in quanto reso orribilmente ‘naturale’ e giustificabile20.

Il canto si chiude con la coscienza da parte di Dante di essere giunto al culmine dell’abiezione: che tocca anche Ugolino, sia chiaro, se è vero che quel mangiare («tu ti mangi»: difficile trovare un uso più antitetico del cosiddetto ‘dativo etico’) è comunque «bestial segno» del suo odio. Tant’è vero che il poeta non vuole sapere perché Ugolino sia finito in Antenora (il motivo, alla fin fine, non sarà mai esplicitamente precisato neppure in seguito) ma solo se una tale scena abbia una qualche giustificazione agli occhi di lui che vi assiste e, quindi, a quelli nostri di lettori che viviamo «nel mondo suso».

Per questo, e concludo, credo che l’ultimo verso del canto, «se quella con ch’io parlo non si secca», sia da intendersi in un senso molto piano (ma non per questo banale: la Chiavacci Leonardi ricorda il biblico, Ps. 136, 6: «Adhaeret lingua mea faucibus meis si non meminero tui»): ’se non mi si seccherà la lingua’21: un modo di dire quasi popolare, sfuggito di bocca a Dante di fronte a uno spettacolo di cui non riesce a darsi, nonostante tutto, ragione.


10 Sagace il commento di Benvenuto da Imola: «homo pravus reputat sibi ad quamdam alleviationem quando reperit alium sibi parem peiorem se».

11 Ad esempio quelli di Grabher, Sapegno, Bosco-Reggio, sino al recentissimo e di solito eccellente di Hollander: fanno eccezione Pasquini-Quaglio e Chiavacci Leonardi.

12 Segnatamente, almeno a mia conoscenza, quelli di Francesco Buti e del Daniello.

13 Cito come esempio di una tale indicazione, assolutamente erronea, la diffusa nota del Bosco-Reggio al v. 106: «Bocca degli Abati, nobile fiorentino di parte guelfa, combattente nella battaglia di Montaperti. Narrano gli storici che mentre le truppe tedesche di Manfredi attaccavano vigorosamente i guelfi fiorentini, Bocca, che combatteva accanto a Jacopo de’ Pazzi, portainsegna, lo ferì e gli tagliò di netto la mano facendo così cadere la bandiera dei cavalieri fiorentini […]. Rientrati i ghibellini in Firenze, Bocca collaborò con quelli e quando nel 1266 fu ristabilito in città il governo guelfo, Bocca fu semplicemente esiliato».

14 È l’unica volta nel canto in cui la presenza di Virgilio è percepibile, l’unica in cui Dante gli rivolge la parola: un canto in cui, e anche questo è eccezionale, Virgilio non parla mai. Nulla potrebbe sottolineare meglio come il vero ed unico protagonista sia proprio il poeta fiorentino.

15 Inf. XXVII 55-57: «Ora chi sè, ti priego che ne conte; / non esser duro più ch’altri sia stato, / se ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte». Anche la reazione di Guido all’offerta di Dante, seppure condotta su ben altro tono dovuto alla dignità del personaggio, è assimilabile a quella di Bocca.

16 Abate di Vallombrosa e ghibellino, giustiziato a Firenze nel 1258 per aver cercato di cacciarne i Guelfi.

17 Di nobile famiglia ghibellina, tradì la propria parte per interessi economici.

18 Anche lui ghibellino, aprì di notte le porte della propria città, come racconta Dante, al nemico esercito guelfo bolognese. Ultimo della serie, per aver tradito insieme la patria e la propria fazione e in più per la futilità del motivo che lo aveva spinto a ciò (una beffa fattagli dai Lambertazzi, ghibellini bolognesi esiliati e riparatisi appunto a Faenza).

19 È il quarto ’supplemento di pena’ presente nel canto, dopo gli occhi sigillati dal freddo dei due fratelli Alberti, le orecchie perdute per il freddo da Camicione e il calcio in faccia e i capelli strappati di Bocca.

20 E non posso non accennare all’ultimo di questi elementi ‘quotidiani’ della scena, che seppure cada nel canto successivo è a pieno diritto da leggersi in continuazione di questo nostro: voglio dire il gesto di terrificante buona educazione di Ugolino che, prima di iniziare a parlare, si pulisce la bocca coi capelli dell’arcivescovo.

21 Altri, tra cui Sapegno, pensano invece che qui Dante si riferisca alla Commedia stessa e intendono ’se la mia poesia avrà la possibilità di vivere in eterno’. Gorni ha ultimamente avanzato la proposta che «quella con ch’io parlo» sia la lingua volgare e parafrasa quindi ’sinché la lingua che io uso sarà parlata e compresa’.


Questo articolo si può citare nel seguente modo:
Marco Berisso, Lettura di Inferno XXXII, in «Italianistica Online», 11 Marzo 2005, http://www.italianisticaonline.it/2005/lettura-inferno-32/

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