Militanza

Cos’è la critica militante? Romano Luperini, riprendendo a suo modo le posizioni in materia di Susan Sontag o di George Steiner, ha fatto sedere anni fa sul banco dei principali accusati dell’insussistenza o della vacuità di certa critica letteraria il “microfilologismo spicciolo”.

Un j’accuse provvidenziale per iniziare a dire ciò che la critica militante non può oggi permettersi di essere: un deontologico elogio del particolare (ininfluente) e del minuzioso (pedantesco), che di quel “microfilologismo spicciolo” sono i più diretti eredi, e dell’inutilmente impervio.

Fuori della provocazione di chi ha raccolto anche da noi il lascito degli scrittori strasburghesi guidati da Christian Salmon [cfr. Christian Salmon e Joseph Hanimann, Diventare minoritari: per una nuova politica della letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 2004 (n.d.r.)], mossi dalla precisa volontà di non lasciarsi leggere e di dichiararsi minoritari (per combattere il “cartello” del mercato editoriale di consumo), o di chi impugna l’estetica del margine come detonatore sociale, quell’elogio lascia il tempo che trova. Alla lunga, invece di rappresentare una molla per risvegliare le coscienze, può anzi fornire un pericoloso alibi al disimpegno e alla deresponsabilizzazione.

Come si deve allora intendere oggi il verbo militare, che si faccia il mestiere del critico o quello dello scrittore? In questi ultimi tempi hanno provato a rispondere in molti, alcuni approfittando della comoda sponda offerta da diversi articoli comparsi sul “Corriere della Sera”, altri schedando diligentemente illustri esponenti della più battagliera critica letteraria nostrana.

È quest’ultimo il caso di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli, autori di un saggio uscito per Bompiani (Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo) che aspirerebbe a essere, oltreché un repertorio alfabetico di nomi, un’introduzione storica all’argomento a partire dagli anni Settanta.

Alla fine il lettore non sa però cosa abbia esattamente per le mani e, fatto ben più grave, non vede soddisfatta proprio quell’unica, decisiva domanda: chi è realmente un critico militante? Quasi nulla su quel militare che tante volte ha significato schierarsi a favore di un’idea che valesse la pena difendere, ingaggiare feroci corpo a corpo contro le vulgate critiche e accademiche, essere disposti a “morire” per la scomoda verità di un gesto di valore.

Il contributo più lucido alla questione lo ha senz’altro fornito Massimo Onofri. Senza rinunciare ad affondare il suo dente avvelenato nelle flaccide carni degli operatori del consenso, e in forza di un singolare e affascinante paradosso, Onofri celebra in un bel lavoro, Ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo (Donzelli), la liturgia di una critica intesa come un ponte gettato tra la demitizzazione di ogni alterità, disinnescata nelle sue talora arroganti pretese di risarcimento, e la riscoperta del ruolo di un lettore che torna a chiedere alla letteratura – ma la sua, in fondo, è richiesta di sempre – una qualche risposta ai piccoli e grandi drammi della sua vita.

Gettati alle ortiche tutti gli ingombrantissimi -ismi novecenteschi (strutturalismo, storicismo, ricezionismo, antropocentrismo…), Onofri pare aver compreso che l’unico modo, oggi, per essere davvero militanti è di sciogliersi in un reciproco abbraccio: soltanto così l’Io può diventare anche l’Altro, quell’Altro che, “in fin dei conti, siamo noi”.

In tempi in cui si brandisce volentieri l’arma dello scontro tra civiltà, o si agita lo spettro della polarizzazione manichea tra il bene e il male, cantare fuori del coro è elogiare le sfumature, i chiaroscuri, le tinte mélange e, al limite, scambiare le posizioni del bianco e del nero.

La sfida portata dall’abbraccio di Onofri si fa forte di un disegno di “illuminismo trascendentale”, di una “ragione condivisa” il cui tramite è l’argomentazione responsabile e retoricamente persuasiva delle idee da comunicare; ma i “valori condivisibili” incaricati di realizzare il migliore dei mondi possibili – una sorta di repubblica maieutica delle lettere –, se servono proficuamente la causa della militanza critica, non bastano a far sì che un critico (o uno scrittore) possa esercitare oggi fino in fondo il suo mandato civile.

L’incontro con il lettore può forse avvenire meglio su un vecchio – e un tempo familiarissimo – campo, solo sfiorato da Onofri: quello del sublime artistico, dell’ammirazione silenziosa per una bellezza che non ha alcun reale bisogno di essere sostenuta dalla persuasione o dall’argomentazione.

Resistere alle sirene del prodotto commerciale (il quale, se è un romanzo, esige la chiarezza dello sguardo da lontano del narratore e la precisione di assetti temporali che scandiscano perfettamente il prima e il dopo) come ha fatto il gruppo di Salmon, o smarcarsi dall’“amicalismo” o dal servilismo dei recensori conniventi, può essere già qualcosa per imboccare e riuscire a mantenere una strada antagonistica nel terreno della scrittura narrativa e della relativa critica; reagire alle tante bellezze volgari o rifatte che inondano il mondo recuperando l’etica di una naturale bellezza potrebbe forse rappresentare qualcosa in più.

Se il genio non dimora più da noi, se gli abbiamo sostituito la succedaneità di un insapore gusto collettivo, è perché non siamo più avezzi a essere disarmati dalla vertigine del bello, alla sua virtù taumaturgica. Non riesce a dirmi granché Harold Bloom quando cerca di convincermi della necessità di un canone letterario occidentale da rivendicare e difendere. Mi seduce quando sostiene invece la centralità del gusto estetico. Convinciamocene. L’illuminismo non ha più molte frecce al suo arco, e ancor meno ne possiede il realismo.

Per tentare di rianimare la letteratura – e riossigenare il giudizio critico su di essa – forse abbiamo bisogno, più che di essere persuasi dagli appelli all’etica della scrittura, di tornare a commuoverci davanti a quel che avvertiamo come sommamente bello. Se c’è un sostantivo al quale mi sentirei oggi di abbinare l’aggettivo etico è proprio quello di bellezza: una “bellezza etica” come idea di un sistema di valori artistici (questi, sì, realmente trascendentali) nei quali si è disposti ad ammettere l’impronta del genio qualunque sia la sua fede o il colore della sua pelle. Un genio che, agli occhi di chi lo ha riconosciuto tale, dovrebbe apparire “innocente” e del tutto disinteressato.


Questo articolo si può citare nel seguente modo:
Massimo Arcangeli, Militanza, in «Italianistica Online», 18 Marzo 2008, http://www.italianisticaonline.it/2008/militanza/

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