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La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto (02)

Posted By Massimo Arcangeli On 1/12/2004 @ 10:00 am In Lingua italiana, Saggi online | Comments Disabled

Provengono dagli Stati Uniti, come al solito, gli esempi più eclatanti e risibili.

[[1] Leggi la parte iniziale di questo articolo…]

Uno a caso fra tanti che potremmo riportarne: a Santa Cruz un amministratore dell’Università di California si è scagliato contro espressioni quali a nip in the air ‘un freddo pungente’ e a chink in one’s armor ‘un punto debole’ «perché contengono vocaboli che in altre accezioni esprimono disprezzo razziale» [[2] 26] (nell’inglese d’America, infatti, nip è termine denigratorio per ‘giapponese’, chink termine denigratorio per ‘cinese’). Sarebbe come se da noi, variatis variandis, qualcuno proponesse di bandire dall’uso una parola come finocchio soltanto perché in uno dei suoi significati è voce spregiativa per indicare un omosessuale. Nel Belpaese non siamo ancora a questo punto ma definire ingenerose, exempli gratia, e francamente fuori luogo le accuse di razzismo mosse dal settimanale Vita, tra l’aprile e il maggio del 1998, a talune sia pure imbarazzanti definizioni treccaniane credo sia ancora dire poco. Se il problema è il rifacimento di voci che risentono variamente della cultura razzista che le ha partorite è inutile dire che l’intervento è doveroso. Ma tacciare di razzismo l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani soltanto perché nei suoi repertori mulatto è fatto derivare da mulo, o perché di meticcio si coglie il nesso con la formazione di classi sociali inferiori, o ancora perché si dice degli ebrei che sono di statura piuttosto bassa e che hanno un naso ben pronunciato e rivolto verso il basso, credo sia oltrepassare i limiti del sano buon senso.

Tempo fa, tra l’altro, nella veste di responsabile del progetto di un dizionario minimo di sinonimi commissionatomi proprio dall’Istituto Treccani, mi sorpresi a riflettere sulla scelta non molto felice di un mio redattore, che aveva ritenuto opportuno inserire tra i sinonimi di avaro il termine ebreo. Optai decisamente per il depennamento e oggi rifarei, senza la minima esitazione, la medesima scelta. Ma il problema resta. Sul piano sincronico, anzitutto: perché i dizionari dell’uso continuano a segnalare il termine ebreo nel significato di ‘avaro’ e in quello, semanticamente affine, di ‘usuraio’, nel migliore dei casi limitandosi ad accompagnare alla registrazione un giudizio morale [[3] 27[4] 28], anche un Daniel Defoe, un Fëdor Michajloviã Dostoevskij, un Guy de Maupassant e, naturalmente, un Thomas Stearns Eliot o un Ezra Loomis Pound. O, ancora, un Rutilio Namaziano che, in un famosissimo passo del De reditu suo (I, 377-398) narrante dell’arrivo e del soggiorno nella toscana Falesia, si lascia andare a una velenosissima tirata antigiudaica.

E, per rimanere in tema, come resistere alla tentazione ripulitoria di fronte alle ferocissime stilettate della quinta satira ariostesca (vv. 205-216)? O di fronte al Macbeth di William Shakespeare che, all’apertura del IV atto della sua sanguinosissima tragedia, fa gettare in un calderone infernale da una delle tre streghe divinatrici, tra altri più o meno ributtanti ingredienti, liver of blaspheming Jew? Tanto varrebbe non leggerlo proprio il grande bardo inglese e lasciare che la balcanizzazione culturale che sta sempre più espandendosi nel nostro vecchio Occidente prosegua indisturbata la sua folle e inarrestabile corsa: del resto, come annota spiritosamente Flavio Baroncelli, «[s]tudiando le opere di un dead white European male (maschio bianco europeo morto) come Shakespeare, una donna o un nero o un ispano-americano non possono che deprimersi, perdere fiducia nel loro sesso, nella loro etnia, nella loro razza. Leggere libri scritti da propri “simili” dovrebbe invece produrre un’educazione sia critica sia galvanizzante. L’identità delle minoranze dovrebbe essere così corroborata, e i sensi di inferiorità dovrebbero sparire» [[5] 29].

Rimuovere o adulterare il passato in nome di un multicultiralismo radicale e bigotto per il quale la lettura che non abbia uno scopo sociale edificante o che non aiuti a diventare dei cittadini esemplari è senz’altro immorale significa però sfuggire quello stesso passato e rinunciare pregiudizialmente a ogni esame e a ogni valutazione critica, è conservare il passato nella sua integrità che aiuta invece a saperlo giudicare, se occorre, anche severamente. Che la Chiesa cattolica, come ha osservato Erez Segev, «dopo la Shoà [abbia] deciso di cancellare dalla Liturgia la frase “perfidi ebrei”» (Vita, 1 maggio 1998, p. 11) è forse un precedente importante per proporre con cautela analoghi interventi di ripulitura di lemmi o accezioni all’interno del corpus di un dizionario o di un qualunque altro repertorio di parole. Ed è sicuramente educativo, si parva licet componere magnis, che Italia Uno, nel mandare in onda (dal gennaio del 2000) un cartoon trasgressivo e irriverente come South Park, parente prossimo dei Simpson, di Beavis & Butt-Head e dei pestiferi Rugrats, abbia deciso di tagliare alcune pesanti battute sugli ebrei. è invece, per altro verso, assai discutibile la decisione di Roger Young, il regista del film-tv Jesus, trasmesso da Raiuno nel dicembre del 1999 e finanziato in parte, guarda caso, dagli americani, di rivisitare la storia di Cristo all’insegna del ribaltamento della verità evangelica sulle effettive responsabilità del tribunale ebraico di Caifas e dello stesso popolo ebraico in merito alla crocifissione.

Occhio anche al prossimo film di George Lucas e alla squadra dei relativi doppiatori italiani: come nota infatti Andrea Ferrari, nell’americanissimo La minaccia fantasma, ultimo capitolo della saga di Star wars, «Watto è un mercante avido, infido e levantino, che parla come un immigrato italiano e sfoggia il nasone stereotipato dell’israelita mediorientale; i […] Nemoidiani sono servili e curiali, untuosi e traditori proprio come gli orientali dei film di Fu Manchu; i […] Gungan, ancorché anfibi e computerizzati, sono l’esatto equivalente dei bonari “selvaggi” dei serial esotici con Jonnhy Weissmuller» (Ciak, settembre 1999, p. 81).

Dobbiamo continuare? Vale la pena rammentare che è impresa ardua per il politically correct impedire che, tra gli usi figurati e in qualche caso proverbiali, spesso innocui e scherzosi, di tante parole italiane continuino a sopravvivere quelli che ammiccano, oltreché all’avarizia e al passato usuraio degli ebrei, ai passati imboscamenti dei portoghesi, alla spilorceria degli scozzesi e dei genovesi, alla nicotino-dipendenza e alla facilità a bestemmiare dei turchi? E come la mettiamo con termini denigratori come crucco e yankee?

E il dente avvelenato degli indiani d’America (pardon: dei nativi americani), dei cino-giapponesi e degli afroamericani risentiti per le formule decisamente spregiative di musi rossi, musi gialli, musi neri con cui per tanto tempo la fumettistica e la cinematografia li ha impietosamente designati? Per un fumetto storico come Tex non può prospettarsi altro destino che la messa al bando: il ranger navajo è infatti tutt’altro che garbato con i neri e i pellerossa e appena più tenero con i cinesi: essi diventano, nel suo colorito ma impertinente linguaggio, sacchi di carbone, musi di rame, limoncini. Senza contare che qualche tempo fa il mitico Tex si è trovato nell’occhio del ciclone proprio per un episodio di presunta political incorrectness. Ci riferiamo alla denuncia, poi opportunamente ritirata, che il Codacons ha presentato all’inizio del 1999 contro Sergio Bonelli, l’editore dell’albo. Gli strali dell’associazione dei consumatori erano stati scagliati contro il numero 458 di Tex, pubblicato nel dicembre 1998: alcune strisce di questo numero riportavano infatti nei rispettivi balloon un veloce scambio di battute tra uno scout, Laredo, e il ranger istiganti, a detta degli accusatori, al consumo di sigarette e di alcool (Tex: «Fumare distende i nervi!» / Laredo: «è questo il segreto della tua leggendaria calma, Tex, il tabacco?» / Tex: «No, ma aiuta»; Tex: «Qualche idea, Laredo?…» / Laredo: «Le idee migliori mi vengono sempre davanti a una bottiglia!»).

La tabuizzazione del politicamente scorretto non ha risparmiato nemmeno la produzione disneyana: sul numero 147 (gennaio 1997) della rivista Comic Art un lettore, Daniele Danese, segnalava (a p. 7) come in una recente ristampa di un albo della Walt Disney del 1974 si specificasse che la birra bevuta da Topolino fosse analcolica malgrado di birra analcolica in quegli
anni in Italia non si parlasse nemmeno; una ristampa simile a tante altre ristampe disneyane in cui ogni riferimento all’hobby della pesca di Pippo e Topolino è stato fatto magicamente scomparire.

Una caccia alle streghe, quella del buonismo d’accatto di certo estenuante politicamente corretto, che ha mietuto e continua ancora a mietere vittime nella fumettistica di questi anni. Basti pensare alla taccia di omofobia che ha visto comparire sul banco degli accusati la criminologa Julia, protagonista dell’omonimo strip creato da Giancarlo Berardi e uscito nuovamente dall’officina bonelliana: il fatto che nel numero due della serie il comportamento pericolosamente deviante di una donna venisse in qualche modo messo in relazione con la sua omosessualità ha difatti scatenato la veemente reazione di Valentina Rocca nel numero del 6 dicembre 1998 del settimanale Avvenimenti [[6] 30] (immediate le repliche, tra cui quella di Paolo Ottolina, apparsa con il titolo di Julia e l’omofobia: comics, giornali e cattiva informazione sulla rivista telematica uBC, all’indirizzo internet www.ubcfumetti.com/ju/articoli.htm). Chissà quale sarebbe stata la sorpresa della solerte giornalista Rocca se, sfogliando la “garzantina” medica (Robert E. Rothenberg, Enciclopedia della Medicina, Garzanti 19877; l’originale inglese è del 1959), vi avesse letto che l’omosessualità è «un disturbo psichico determinato principalmente dall’ambiente» (p. 311) e che un giovane, qualora si “ammali” di questo sciagurato disturbo, deve essere indirizzato «a uno psichiatra competente al quale spetterà decidere se è il caso o no di intraprendere una terapia» (ibid.).

A proposito di omofobia: servirebbe a ben poco schierarsi contro la discriminazione verso gli omosessuali a colpi di semplice sostituzione dei vari checca, frocio, pederasta, finocchio e via dicendo (l’ultimo pronunziato qualche tempo fa da Eddie Irvine all’indirizzo di un finto-imbranato “palpeggiatore” nella trasmissione televisiva del 24 settembre 1999 di Scherzi a parte) con il temperatissimo e neutrissimo gay, un termine, tra parentesi, «riesumato dal gergo criminale inglese settecentesco, dove stava a indicare chi si prostituisce e vive di espedienti» [[7] 31]. Gli esponenti della formazione di estrema destra Forza Nuova, che, per protestare contro il recente gay pride romano, hanno tappezzato i muri della capitale di manifesti con su scritto L’Italia ha bisogno di figli non di omosessuali e hanno esibito ignobili striscioni che recitavano Il Colosseo ai gay? Coi leoni dentro, non hanno certo avuto bisogno di sostituire i termini gay o omosessuale con il termine frocio per rendere palese la loro intolleranza omofoba.

È peraltro assai interessante notare come, provocatoriamente, una parte della comunità omosessuale americana, con la fondazione del movimento della New Queer Politics, si sia di recente addirittura riappropriata di un termine come queer, con il quale da lungo tempo viene indicato spregiativamente un omosessuale in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e l’abbia preferito a gay, che la irriterebbe «perché suggerisce un’immagine stereotipata dell’omosessualità» [[8] 32[9] 33[10] 34].

E, ritornando alle inclinazioni sessuali particolari, che direbbero, se potessero ancora pronunciarsi, gli abitanti della città palestinese di Sodoma, distrutta dall’ira divina, al sentir dare del sodomita a un omosessuale? Se la prenderebbero probabilmente con il racconto della Genesi, la madre di tutte le accuse al riguardo («igitur Dominus pluit super Sodomam et Gomorram sulphur et ignem» 19, 24), o con l’incauto che durante il Medioevo pensò bene di coniare il termine di sodomita: anche se, andrà detto, nel periodo medioevale era tacciato di sodomia chiunque, omosessuale o eterosessuale, si fosse semplicemente reso colpevole di un atto sessuale contronatura [[11] 35].

Anche gli abitanti della francese Cahors s’adonterebbero certo se qualche spirito eccessivamente audace osasse anche soltanto rammentare loro che durante il Medioevo era talmente diffusa la tradizione che li voleva prestatori di denaro ad altissimi tassi di interesse che caorsino passò appunto ad indicare, stando a quella malalingua del Boccaccio, comunque sobillata dalla Commedia dantesca, l’usuraio per antonomasia. E chissà che, sfogliando distrattamente la Commedia dantesca e leggendo del «puzzo / del villan d’Aguglion, di quel da Signa, / che già per barattare ha l’occhio aguzzo!» (Par. XVI, vv. 55-7), non s’inalberi un bel giorno anche il contadino (chiedo scusa, l’operatore agricolo) delle nostre belle campagne e, minaccioso, dissuada noi, spocchiosi abitanti di città, dal continuare a dare del villano o del cafone a chi non rispetta la buona creanza o dall’apostrofore come villico chi manifesta maniere ruvidette anzichenò. Come peraltro s’indignò la sinistra italiana di allora nel voler cogliere in alcuni famosi versi carducciani l’aristocratico e maledicente disprezzo dell’artiere proprio per la cultura contadina e per i suoi esponenti:

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.
Dinanzi alle terme di Caracalla, vv. 17-20

È lo stesso Carducci a ricordarcelo in una testimonianza del 4 febbraio del 1893, non omettendo di fare una doverosa precisazione: «Fu chi intese che questi versi augurassero la malaria ai buzzurri. Ohimè! Io intendevo imprecare alla speculazione edilizia che già minacciava i monumenti, accarezzata da quella trista amministrazione la quale educò il marciume che serpeggia a questi giorni nella capitale».

La nostra memoria storica e il nostro stesso senso comune non possono insomma essere azzerati d’un botto da quei solerti difensori dello Stato etico del linguisticamente corretto che manipolano artatamente il passato o sobbalzano di fronte ad ogni anche del tutto inconsapevole revisionismo, schierandosi acriticamente contro il lessico d’antan ideologicamente sospetto. Basta la parola, recitava un vecchio andante pubblicitario. E invece no, ad onta di chi ritiene che «la richiesta di parole corrette è un atto politico progressista che naturaliter rimanda alla volontà di cambiare le cose (e quindi può anche promuovere il cambiamento, sia pure indirettamente)» [[12] 36].

I paesi del terzo mondo, se non opportunamente inseriti in un concreto disegno politico di integrazione e di aiuti internazionali, restano tali anche se li si appella paesi in via di sviluppo o, come ancor meglio usa dire oggi, paesi emergenti. I relativi reati non scompaiono magicamente se cancelliamo dal vocabolario parole scomode come pedofilia o stupro e un giustiziato non ritorna magicamente in vita se gli preferiamo fucilato o impiccato [[13] 37[14] 38].

E sarà un rilievo insopportabilmente scontato, e che si presterebbe peraltro ad essere condito delle stesse troppo facili battute che negli Stati Uniti sono mosse all’indirizzo del peasant o del farmer che aspira ad essere chiamato agriculturist o del garbage collector che vuole diventare un sanitation engineer [[15] 39], ma un’autentica riqualificazione professionale non avviene attraverso il semplice passaggio formale da bidello a collaboratore scolastico, da netturbino a operatore ecologico o da infermiere a operatore sanitario; i poveri e i padroni restano tali anche se li si riqualifica come non abbienti e imprenditori; i pazienti che divengono assistiti non hanno alcuna ricaduta, nemmeno da effetto placebo, sulla qualità del servizio sanitario e gli affetti da lebbra non si sentono maggiormente tutelati se il legislatore preferisce chiamarli hanseniani. Val la pena constatare incidentalmente come lo strumento legislativo, in quest’ultima circostanza (ma gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare), abbia proceduto nel tempo lungo la strada della progressiva tecnicizzazione. Basterebbe confrontare le tre formulazioni seguenti, che titolano altrettanti provvedimenti di legge relativi allo stanziamento di sussidi a favore dei malati di lebbra e dei loro parenti più prossimi o a carico:

Concessione di un sussidio a titolo di soccorso giornaliero ai congiunti dei lebbrosi ricoverati ed ai ricoverati stessi (legge n. 1047 del 29 ottobre 1954)

Modifiche alle norme sui sussidi agli hanseniani e familiari a carico (legge n. 404 del 3 giugno 1971)

Sussidio integrativo dello Stato in favore degli infermi hanseniani e dei loro familiari a carico (legge n. 4 del 12 gennaio 1974)

I lebbrosi, non bastasse l’ingrato hanseniano, che sembra evocare lontani e favolosi pianeti, hanno finito per lasciare il campo alla dicitura, francamente orribile, di infermi hanseniani.

E ancora, per dirla con Robert Hughes, «[l]’invalido si alza forse dalla carrozzella, o ci sta più volentieri, perché qualcuno ai tempi dell’amministrazione Carter ha deciso che lui è ufficialmente un “ipocinetico”?» [[16] 40].

Tecnicismi del linguaggio medico come hanseniano o litoti eufemistiche come non deambulante, non udente, non vedente non risolvono il drammatico problema di chi è malato di lebbra, di chi non cammina, di chi è sordo o cieco ma possono anzi suonare come un’autentica violenza o come un involontario sberleffo all’idioletto di chi alla malattia o al gap sensoriale suo o dei suoi cari non ha mai pensato e non avrà mai il coraggio di pensare nei termini imposti da una livellante burocrazia: alla piena della solidarietà e degli affetti del linguaggio comune il burocratese sostituisce infatti nella circostanza il sapore di fiele e il tono freddo e asettico del distanziamento emotivo [[17] 41]. Si può forse negare in buona fede che Plutarco abbia avuto completamente torto nell’affermare, nella Vita di Coriolano (11, 6), che soprannomi come Silla (che lo stesso Plutarco interpreta come ‘dal viso chiazzato’: Syll. 2, 2), Nigro, Rufo o come Cieco e Clodio, ricavati da altrettante caratteristiche fisiche, ci abituino a non ritenere la cecità o una qualunque altra menomazione fisica cosa di cui vergognarsi o da stigmatizzare senz’altro?

Che il politically correct, se proprio deve venire anche da noi, sempre più attirati entro l’orbita dell’american way of life, venga e s’imponga pure. Ci educhi, ne avremmo tutti molto bisogno, «a non percepire il mondo degli uomini attraverso le categorie e i criteri di rilevanza mesi insieme da millenni di guerre e
sopraffazioni» [[18] 42]. Ma intervenga per il futuro, meno per l’immediato presente e men che mai, retroattivamente, per il passato. Ciò che si è cristallizzato e ha resistito all’usura del tempo non può essere cancellato con un semplice colpo di spugna. Altrimenti si rischia di ritornare alle vetero-censure fasciste o staliniste o di lasciarsi irretire da un atto d’imperio.

Prima di concludere vorrei ricordare un altro recente episodio in tema. I fatti risalgono al settembre-ottobre 1999. Il portiere del Parma, Gianluigi Buffon, reduce dalla sconfitta con la Lazio, si presenta davanti alle telecamere della Domenica sportiva per commentare la partita. Sulla sua maglia, accanto al nome dello sponsor, una scritta tracciata col pennarello. La scritta recita testualmente Boia chi molla!!!

Apriti cielo. Prontamente crocifisso Buffon, ignorante reo confesso. Si indigna perfino l’allora Ministro degli Interni Rosa Russo Jervolino, che invoca la cultura della legalità, e Alessandra Mussolini, inviperita per le sue dichiarazioni, fa il suo provocatorio ingresso nell’aula di Montecitorio indossando sotto un cardigan azzurro prontamente sfilato una t-shirt bianca con su impressa, ancora con un pennarello, la scritta Boia chi molla Buffon. Alla Camera è la rissa. Il giorno seguente un manipoletto di militanti neofascisti di Forza Nuova manifesta la sua piena solidarietà alla Mussolini, non nuova a certe imprese (si ricorderanno i suoi jeans antistupro), esponendo in piazza Montecitorio uno striscione con su scritto: Boia chi molla: liberi di gridarlo.

La colpa di Buffon: aver recuperato il motto, tristemente famoso, di cui il sedizioso giornalista e sindacalista della CISNAL Francesco (o più familiarmente Ciccio) Franco, già affiliato al MSI e poi senatore nello stesso partito, si era servito nel cavalcare demagogicamente la protesta per Reggio Calabria capoluogo, esplosa il 14 luglio del 1970 ed esauritasi alla fine di settembre dell’anno seguente, divenendo il leader indiscusso di quel Comitato d’azione che, congiuntamente ad altri gruppi e gruppuscoli locali, guidava i rivoltosi.

Un vero e proprio putiferio per una pur assai inquietante scritta sulla maglia [[19] 43]. La destra, ossessionata dall’immagine di un Che Guevara che si intrufolerebbe un po’ dappertutto, invoca la par condicio. La sinistra, anche la più illuminata e garantista, schiuma rabbia al sentir paragonare il Che a Ciccio Franco.

Le croci uncinate imperversano intanto sulle gradinate degli stadi. Gli sfottò offensivi, quando ci si limita alle parole e non si passa alle vie di fatto, dilagano dappertutto negli ambienti calcistici. Non erano in fondo diverse, mutatis mutandis, le frasi ingiuriose che gli esasperati e delusi reggini manipolati da Ciccio Franco rivolgevano a Emilio Colombo e a Giacomo Mancini, in quegli anni, rispettivamente, Presidente del Consiglio e segretario del PSI: Mancini, Colombo, vi aspetta il piombo; Governo Colombo, sassi e piombo; Colombo Mancini assassini. Quegli stessi reggini che dalle terrazze e dai balconi di via Sbarre Centrali gridavano bbucalaci ‘cornuti’ all’indirizzo degli agenti inviati in forze dal governo per sedare i tumulti nella fase più lunga e violenta (la quarta, durata dalla seconda metà di gennaio alla fine di febbraio del 1971) dal loro inizio.

È sicuramente infelice una scritta come Boia chi molla, così come, non se la prenda il povero Buffon, alla ricerca degli attributi perduti, c’è poco da scherzare con l’88 di vago sentore neonazista (si traduce infatti come Heil Hitler presso alcune frange di naziskin nordeuropei) scelto alla riapertura di questo campionato come numero di maglia con l’incredibile comica motivazione:

Ho scartato, per un motivo o per un altro, altri 5 numeri particolari: lo 00, lo 01, il 69, il 99 e il 66. L’ho scelto solamente perché è il numero con più palle in assoluto, quattro, e io, in questa stagione, debbo assolutamente tirare fuori tutto il carattere che ho, per riguadagnarmi un posto al sole [[20] 44].

Svastiche, scritte o parole ingiuriose posseggono però ben altra visibilità rispetto alle involontarie gaffes di Buffon, sono segnali di un trend ben altrimenti pericoloso e inquietante: sono questi i veri segnali da stigmatizzare con fermezza, i segnali che restano, che resistono all’usura del tempo e alla secolarizzazione, che vanno realmente fermati. Sono questi i simboli pregnanti dell’intolleranza razziale, della violenza cruda e consapevole. Chi, come i tifosi della Lazio, espone striscioni con su scritto Onore alla tigre Arkan o Squadre de negri. Curva d’ebrei (con riferimento alla squadra e alla curva della Roma nella circostanza del derby capitolino del 29 aprile 2001) o si cimenta in cori razzisti contro calciatori di colore (i famigerati buuu…), chi espone una scritta offensiva, lancia un’ingiuria, traccia una svastica o (come ancora una volta i tifosi laziali nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo dell’incontro Lazio-Piacenza del 19 dicembre 1999) intona Faccetta nera, sventolando bellamente bandiere con su stampate croci celtiche, conosce perfettamente il valore del gesto che compie. Ma tra le nuove generazioni (e anche, in buona parte, tra le vecchie) chi è in grado di recuperare il retroterra storico che ha partorito Boia chi molla? E poi chi, realmente, si sente offeso da questa espressione? In tempi di galoppante political correctness gli unici che si dovrebbero indignare nel sentirla o vederla scritta, buttiamola in scherzo, sono i boia, che però, fortunatamente, sono specie da lungo tempo estinta nella maggior parte delle civiltà più progredite.

Forse se Boia chi molla avesse avuto un vettore diverso dalla maglia di un giocatore di calcio il vespaio di polemiche che è stato sollevato non avrebbe avuto ragione di essere. O forse no. Forse al banco degli imputati va fatto sedere, ancora una volta, un perbenismo linguistico troppo spesso palesemente censorio e indiscriminatamente omologante. E allora, ancora una volta, non possiamo fare altro che ribadire il nostro disappunto. Ce ne sont pas les tyrans qui font les esclaves mais les esclaves qui font les tyrans ; o se si vuole, per dirla con il già ricordato e non sospetto bollettino fiorentino Non mollare!: «La libertà è come l’aria: finché ne abbiamo a volontà, la respiriamo senza pensarci: quando ci manca, allora ne sentiamo il valore». Anche a noi, nell’avvertire nel momento presente, linguisticamente parlando, una vaga sensazione di asfissia, pare di apprezzare maggiormente il valore profondo della libertà di espressione. La lingua logora chi non ce l’ha. Boia chi molla la civiltà. E la libertà di comunicare il pensiero.

Note

Pubblicato a stampa nella rivista «Studi di lessicografia italiana» dell’Accademia della Crusca di Firenze, vol. XVIII (2001), pp. 285-305. - [La codifica digitale della presente versione online è stata curata da Luigi M. Reale, che ha provveduto anche all’integrazione dei collegamenti ipertestuali.]

[21] Leggi la parte iniziale di questo articolo…

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28 Un Bloy e un Céline contro i quali si sono abbattuti gli strali di Pier Vincenzo Mengaldo (Contro Bloy (e Céline), in Belfagor, L, n. 1 (31 gennaio 1995), pp. 99-102) nella circostanza della pubblicazione da parte dell’editore Adelphi della versione italiana del testo di Bloy
(Dagli Ebrei la salvezza, 1994). | [24] Torna al testo

[25] Torna al testo

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40 La cultura del piagnisteo cit., p. 35. | [36] Torna al testo

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