La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto (01)

Chi sono i padroni di una lingua? Chi ne governa l’uso? Difficile, per il tempo presente, affermarlo con risoluta certezza. Un ruolo di primo piano giocano però sicuramente i paladini ad oltranza del politicamente corretto.

Con questo contributo [*] inizia la collaborazione del prof. Massimo Arcangeli ad «Italianistica Online» e si inaugura una nuova sezione del portale che contiene saggi di linguistica italiana.

Chi sono i padroni di una lingua? Chi ne governa l’uso? Difficile, per il tempo presente, affermarlo con risoluta certezza. Un ruolo di primo piano giocano però sicuramente i paladini ad oltranza del politicamente corretto. Di quel politicamente corretto che ha visto perfino Massimo D’Alema, in veste di Presidente del Consiglio, reagire con un’azione legale, poi rientrata, a una vignetta di Giorgio Forattini che lo chiamava in causa nell’affaire Mitrokhin e qualche anno fa la Banca di Francia rinunciare a imprimere su una banconota l’immagine dei fratelli Lumière soltanto perché a loro tempo sostenitori del governo collaborazionista di Vichy [1]. Di quel discutibilissimo politicamente corretto che arriva a manipolare perfino la nostra memoria dell’infanzia.

Non è uno scherzo: non molti anni fa, infatti, uno scrittore americano di Chicago, James Finn Garner, ha riscritto alcune vecchie fiabe, sia pure con un pizzico di ironia, proprio in perfetto stile politically corrept. Nel libro in questione (Politically Correct Bedtime Stories, London, Macmillan, 1994):

i bambini imparano […] che Cappuccetto Rosso, la nonna e il lupo hanno fondato «una famiglia alternativa basata sul reciproco rispetto, sulla cooperazione, e hanno vissuto insieme nel bosco, felici e contenti».

Anche il lupo che insidiava i tre porcellini, in fondo, era un bravo diavolo. Viveva in armonia con i piccoli suini e con l’ambiente circostante. Era vegetariano ed ecologista. Usava materiali non importati e con questi aveva costruito una bella casa per sé e per i tre porcellini. […].

Cappuccetto Rosso era una bimba risoluta e femminista che andava nella casa della nonna con un grande cesto pieno di frutta e di acqua minerale, è scritto, «non perché fosse un lavoro da donna, badate bene, ma perché era generosa e voleva infondere un senso di solidarietà». Molta gente credeva che il bosco fosse un posto pericoloso e non vi aveva mai messo piede. Cappuccetto Rosso, invece, era talmente fiduciosa «nella sua sessualità in erba da non lasciarsi intimidire dalla ovvia valenza freudiana». Il lupo non più cattivo, dal canto suo, godeva di uno status al di fuori della società che lo lasciava libero di non adeguarsi «ai canoni conformistici della società occidentale». Poteva indossare la cuffia della nonna perché non era ostacolato da «nozioni rigide e tradizionaliste su ciò che è maschile e femminile».

Il libro è stato scritto con un linguaggio depurato da ogni possibile rischio di offesa agli animali, alle minoranze etniche, ai bambini, ai poveri, pardon, agli «economicamente svantaggiati», ai nani. Questi ultimi, «verticalmente svantaggiati», possono aspirare all’amore di Biancaneve su un piede di parità con il bel principe azzurro. […] Dalle vecchie favole la discriminazione è stata eliminata ma rimane la violenza politica. I tre porcellini hanno fondato un movimento «porcinista» per liberarsi dalle «volpi imperialiste» [2].

Quello stesso politicamente corretto che, mutatis mutandis, ha indotto la Commissione sul futuro della Gran Bretagna multietnica a stilare, su preciso incarico del governo inglese, un documento di circa 400 pagine nel quale, «[p]er la prima volta in Europa si chiede a un paese di cambiare ragione sociale, di “dichiararsi formalmente una società multiculturale”. Di rinnegare e di riscrivere la propria storia, di cambiare l’assetto costituzionale e di abolire la preminenza della Chiesa Anglicana, di riconsiderare il ruolo della monarchia, di modificare le leggi sull’immigrazione, di istituire una commissione permanente sui diritti umani. Di cambiare colore al paese, a partire dalla bandiera, perché “nell’Union Jack il nero non c’è”, ma solo le insegne crociate di una conquista militare» [3].

Il fenomeno del politicamente corretto, già imperante negli Stati Uniti, dove appare però in ribasso fin da quando il popolo americano, nel 1994, preferì attribuire la maggioranza in Congresso proprio a chi, come il partito repubblicano, aveva fatto «della lotta allo spaventapasseri “p.c.” […] un caposaldo della [sua] campagna elettorale» [4], nacque proprio negli States negli anni Trenta del secolo scorso, in seno alla sinistra comunista. Assimilato più tardi, negli anni Sessanta, da talune frange della New Left, e, sull’onda della protesta sessantottina, giunto anche da noi, esso ha assunto via via dimensioni sempre più consistenti.

Decisiva la fine degli anni Ottanta, quando il politicamente corretto investì i «più prestigiosi atenei nord-americani assumendo fin dai primi passi il suo carattere di fenomeno d’élite. Al fondo della sua genesi stava l’idea dell’università come grande luogo di promozione della giustizia sociale» [5]. Alla fine degli anni Ottanta, per l’appunto, cominciarono a diffondersi in quegli atenei dei precisi regolamenti (gli speech codes [6]) che, nell’intento di disciplinare il comportamento verbale tra i componenti del relativo campus, sottoponevano a sanzioni amministrative tutti coloro che si fossero abbandonati a un linguaggio razzista, sessista, omofobico e via di questo passo. Il «primo codice verbale […] ufficialmente istituito fu quello del 1988 all’Università del Michigan ad Ann Arbor. […] Entro il 1993 la gran parte degli atenei e dei college americani aveva provveduto alla creazione di codici di linguaggio e di comportamento, promulgati poi dalle rispettive amministrazioni di ateneo» [7].

Le vicende del politically correct proseguono con la pubblicazione, nel 1993, «del manifesto Words that wound. Critical race theory, assaultive speech and the first Amendament, stilato da quattro professori di legge appartenenti a quattro famosi atenei americani. […] Al fondo di Parole che feriscono sta l’analisi del linguaggio aggressivo, che gli autori considerano una delle più ingiuriose manifestazioni di razzismo. Ma viene anche posto in discussione quel “Primo Emendamento” alla Costituzione degli Stati Uniti che fa parte del Bill of Right: esso garantisce la libertà di culto, di parola e di associazione. […] Basandosi sul fatto che il razzismo si definisce soprattutto nella subordinazione strutturale di alcuni gruppi basata sull’idea di inferiorità, gli autori del manifesto suggeriscono di oltrepassare la limitazione dell’Emendamento e di attuare una restrizione del linguaggio. Una rivendicazione che è diventata il vessillo dei »Politicamente Corretti» [8]. I quali hanno rispolverato per l’occasione anche una vecchia sentenza con cui la Corte Suprema, nel 1942, aveva di fatto proibito le fighting words affermando « – Chaplinsky versus New Hampshire – che le parole idonee a scatenare una reazione violenta in una persona normale non sono protette dal Primo Emendamento» [9].

Nel nostro paese il politically correct, che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna ha alimentato negli ultimi anni, oltre a rivendicazioni multiculturaliste dai toni talvolta esasperati, una nutrita serie di prodotti editoriali di vario genere [10], sembra ormai non risparmiare da qualche tempo niente e nessuno. Ad onta di chi, come Barbara Spinelli, tuonava qualche anno fa dalle pagine di un noto quotidiano (La parola diventa coltello, in La Stampa, 13 novembre 1995, pp. 1, 4) contro quella che definitiva la “nuova sfacciataggine”:

Tutto è permesso, visto che la politica è morta. Tutto è pronunciabile, dicibile […]. È l’urlo dei rabbiosi integralisti di Giudea e Samaria, che hanno decretato la divina punizione di Rabin, a Tel Aviv. È l’urlo degli epuratori etnici in Serbia, che fin dai primi Anni Ottanta hanno cominciato a chiamare gli albanesi e i croati con nuovi nomi, spregiativi: i primi erano soprannominati bestiali, i secondi genocidiali. Quanto alla Serbia, l’aggettivo che la riassumeva era: nazione macellata. Macellata dal Kosovo albanese e dai brutali musulmani. […] L’urlo irresponsabile ignora volutamente il livello della politica, che è considerata inferiore, compromissoria, troppo umana. È urlo espressionista, negatore dell’autolimitazione. È urlo che pretende di far pulizie, prima nel linguaggio e poi nelle cose umane.

Questa pretesa purificazione della lingua, questa familiarità disinvolta con le parole grosse, dette anche veritiere, nasce da una grande certezza di questo fine secolo: la certezza che sia definitivamente tramontata l’epoca in cui il linguaggio doveva essere politicamente corretto, doveva evitare la degradazione dell’Altro, soprattutto quando quest’ultimo apparteneva a categorie etniche o biologiche spesse volte maltrattate. Gli usi di quell’epoca, nata negli Anni Sessanta, si dilatarono fino a diventare irrespirabili, alla maniera di una polizia del verbo. La parola animalità era bandita, perché inferiorizzava la bestia. Nacquero i diritti delle bestie e l’animale domestico dovette chiamarsi compagno animale. Furono esiliati Socrate, Shakespeare, perché misogini. Il vocabolo seminario fu mandato al rogo, perché conteneva il seme che è maschio. Ma all’antiquata polizia linguistica se n’è ora sostituita un’altra: che dice pane al pane, che non usa cerimonie. È Nuovalingua di Orwell anche questa, è anch’essa al servizio del ministero della Verità, certa com’è di non essere mai nel torto per il solo fatto che è politicamente scorretta. Quasi trent’anni dopo comincia, non meno integralista e sicura di sé, l’epoca della Nuova Sfacciataggine.

E ad onta di chi, oggi, tuona contro la scurrilità sdoganata dal cinema, dalla televisione, dalla carta stampata (Il piccolo libro degli insulti di Beppe Cottafavi - Milano, A. Mondadori, 2000 - è ormai un best-seller), dai vari insultari che circolano in rete (dal frequentatissimo www.affanculo.org a www.virtualinsults.com). Interventi normativi contro il linguaggio troppo crudo o francamente sfacciato non sono ovviamente mancati nel corso dei secoli. Plutarco per esempio, nella Vita di Solone (15, 2), attribuisce al legislatore ateniese la brillante trovata di smorzare la sostanza sgradevole delle cose assegnando loro epiteti delicati e piacevoli: così Εταιραι ‘amiche, compagne’ diventa un ottimo sostituto di παρνι ‘prostitute’.

Non si può certo negare che l’ipocrisia verbale possieda, in una qualche misura, una sua «funzione civilizzatrice» [11]. Chi intende imbrigliare completamente una lingua (o una cultura) nelle maglie del non offending o, per dirla con una felice espressione di Pierre-André Taguieff, dell’eugenetica lessicale negativa, può rischiare però di apparire un feticista della sterilizzazione espressiva coatta se non condisce il suo intervento cum grano salis o può mentire sapendo perfettamente di mentire. Il tartufesco puritanesimo dei businessmen americani che «ci ha regalato “ripiegamento del capitale azionario” per il crollo in borsa del 1987 e “ottimizzazione delle dimensioni aziendali” per i licenziamenti in massa» [12] è lo stesso tartufesco puritanesimo dell’esercito americano sorpreso a usare certe espressioni al posto di altre per occultare agli occhi dei più sprovveduti l’idea della morte e della distruzione addebitabili a una guerra o a un intervento militare. Un esercito che durante la guerra del Golfo «ci ha insegnato che spianare un posto con le bombe è “occuparsi di un bersaglio” o “perlustrare una località”, e bombardarlo una seconda volta per assicurarsi che non sia sopravvissuto neanche un serpente o un rovo è “perlustrare nuovamente una località”» [13]; quello stesso esercito che «dice “nerve agent” per indicare senza drammi a chi sa, e non indicare a chi non sa, un gas che attacca il sistema nervoso, e allude alla distruzione di civili parlando di “collateral damage”, danno collaterale. La distruzione della vegetazione si chiama “programma di controllo delle risorse” e, se un reparto amico viene bombardato per sbaglio, si parla di “fuoco amichevole” e di “decessi amichevoli”» [14].

Ma l’ineffabile sostenitore ad oltranza del politically correct potrebbe anche assomigliare a quella sorta di Grande Fratello che nel film Demolition Man (USA 1993), ambientato nella San Angeles del 2032 (risultato della fusione dei complessi di Santa Barbara, Los Angeles e San Diego dopo un megaterremoto), impedisce a chiunque, come ha modo di sperimentare sulla sua stessa pelle il protagonista, Sylvester Stallone, di usufruire di tutto ciò che non è salutare, in quanto, parola di Sandra Bullock, «qualsiasi cosa non sia salutare è cattiva e quindi illegale»: e non è salutare, ed è quindi illegale, darsi al fumo o all’alcool, fare uso di caffeina, consumare carne, cioccolato, cibi piccanti, praticare sport violenti, poter disporre di benzina, trastullarsi con giocattoli non educativi, praticare l’aborto e partorire senza licenza. E, per finire, non è salutare, ed è quindi illegale, abbandonarsi al turpiloquio, che era il modo con il quale nella vecchia Los Angeles del 1996, sempre secondo la Bullock, «i maschi insicuri facevano lega tra di loro»: un turpiloquio prontamente rilevato, a San Angeles, da infernali marchingegni elettronici, dotati di sintetizzatore vocale, a suon di multe di un “titolo” o mezzo “titolo” «per violazione del regolamento dimoralità verbale».

Siamo sicuri di essere poi così distanti da uno scenario del genere? Si pensi a talune recenti reazioni innescate nel nostro paese dalle metafore che infierirebbero impietosamente sul povero mondo animale: dopo la sortita della verde Carla Rocchi che, nelle vesti di sottosegretario alla Pubblica Istruzione, ha censurato uno spot del suo stesso ministero nel quale al classico invito In bocca al lupo! si replicava con l’altrettanto classico Crepi il lupo!, bisognerà guardarsi non solo dall’adagio plautino (e poi hobbesiano) Homo homini lupus o da altrettanto antistoriche espressioni partorite dal mondo venatorio o piscatorio (come, rimanendo in tema di auguri antifrastici, il più greve ma goliardico e assai diffuso In culo alla balena) ma anche dalla tentazione di sottostimare i cervelli di oche e galline o le capacità intellettive degli asini o di attribuire ai serpenti la traditrice perfidia che sappiamo (tanto più che il mondo politico ha recentemente promosso a simbolo di aggregazione partitica, tra una coccinella e un elefante, proprio l’asinello). Stia in guardia anche l’industria del tonno: continui pure indisturbata a praticare la mattanza ma tragga esempio dalla pruderie espressiva delle aziende di scatolame americane, che designano l’atto finale della pesca di questi animali con il termine molto meno sgradevole di harvest ‘raccolto’.

L’insostenibile leggerezza della newspeak dei p.c. è in grado di provocare effetti anche peggiori. Può arrivare a ingenerare, ma guai a scherzarci sopra [15], vere a proprie reazioni semiserie a catena, come nella circostanza di talune accolte di termini inglesi che circolano in Internet, ognuno dei quali glossato con la sua brava traduzione in “eufemese”: così chi è dishonest è in realtà ethically disoriented, chi è handicapped o crippled è phisically challenged, un alcoholic è un anti-sobriety activist e dire died è anche dire living impaired o actuarially mature; o, ancora, il body odor è nondiscretionary fragrance, l’abortion è near-life experience, il cannibalism è intra-species dining. Chi volesse divertirsi a trovare altri esempi di verbal uplift di questo tenore avrebbe soltanto l’imbarazzo della scelta della rotta da seguire nella navigazione tra i siti disponibili. Ce n’è per tutti, anche per le donne. All’indirizzo www.geocities.com/SoHo/Studios/2334/pcwomen2.htm reperiamo difatti una lista di politically correct terms about women contenente amenità del genere:

She is not a:
EASY
She is:
HORIZONTALLY ACCESSIBLE
She is not:
COLD OR FRIGID
She is:
THERMALLY INCOMPATIBLE
She does not have:
A HARD BODY
She is:
ANATOMICALLY INFLEXIBLE

E, a proposito di donne, che dire della crociata scatenata da alcune femministe americane contro l’uso impersonale di He e per la diffusione di parole come chairperson e spokeperson per protestare contro il suffisso man di chairman e spokesman [16]? Una crociata che ha raggiunto anche il continente australiano, il cui governo, qualche anno fa, ha proibito di usare nelle pubblicazioni ufficiali termini come sportsmanship, workman, statesmanlike, craftsmanship [17], e che ha indotto taluni americani a scrivere la forma man in neretto anche in human e in humanity, «ad indicare il perenne occultamento linguistico della donna» [18]. Per reagire al quale l’onorevole Silvia Costa, in qualità di presidente della Commissione per le Pari Opportunità, ha proposto di «usare aggettivi plurali al femminile […] anche se del “plurale” fa parte qualche uomo» [19]. E per reagire al quale qualcuno potrebbe anche da noi, da un momento all’altro, consigliare di marcare la parola uomo in contesti sintagmatici ormai decisamente bloccati come caccia all’uomo, uomo della strada, a misura d’uomo, a passo d’uomo, marcato a uomo, a meno che non preferisca le soluzioni avanzate diversi anni fa in un discusso volume di Alma Sabatini [20] (non caccia all’uomo ma caccia all’individuo o alla persona, non uomo della strada ma gente comune o, anche, individuo o persone della strada,
non a misura d’uomo ma a misura umana [21]): una Sabatini, poco sostenuta non solo da addetti ma anche da addette ai lavori [22], che suggeriva peraltro di usare maternità in luogo di paternità in espressioni come paternità di un’opera, di un’iniziativa e sim. ogni qualvolta l’artefice di turno fosse stata una donna e che proponeva di evitare parole come fraternità e fratellanza, qualora si fossero riferite sia a donne che a uomini, e di sostituirle con solidarietà (umana) [23]. E se solidarietà (umana) non piacesse non dimentichiamo, come ci rammenta Gianna Marcato [24], che esiste anche sorellanza.

Non può mancare naturalmente all’appello dei nuovi censori e dei nuovi crociati del melting pot l’offesa alle etnie e alle popolazioni di interi stati o di altre più o meno estese realtà geografiche. Ci scherzava su, qualche anno fa, un fine ironista come Alberto Arbasino:

(che era razzista) ha spesso ripetuto che i Balcani sono la polveriera d’Europa, e i popoli balcanici sono sanguinari e stupratori. Per non dar ragione a Hitler, e non passare per razzisti, oggi molti sostengono che non è politicamente corretto dare giudizi «etnici» negativi e considerare «barbari» i popoli con usanze diverse dalle nostre. Come conseguenza, non credono alle vittime neanche se le vedono in televisione, non fanno né un comizio né un concerto a San Giovanni né un sit-in di pacifisti contro la «barbarie» in Bosnia; e per coerenza non tirano fuori un soldo per i soccorsi contro i «barbari», che non si possono chiamare così, perché hanno anche loro tradizioni culturali da rivendicare. E così parecchi, non essendo razzisti né politicamente scorretti, si rifiutano di credere che i thailandesi prostituiscano le bambine. Sarà un complotto internazionale, una congiura che diffonde menzogne e calunnie etniche. E i signori soli che si aggirano fra le luci rosse di Bangkok saranno probabilmente benefattori [25].

Leggi il seguito di questo articolo…

Note

*Pubblicato a stampa nella rivista «Studi di lessicografia italiana» dell’Accademia della Crusca di Firenze, vol. XVIII (2001), pp. 285-305. - [La codifica digitale della presente versione online è stata curata da Luigi M. Reale, che ha provveduto anche all’integrazione dei collegamenti ipertestuali.] | Torna al testo

1 Sulle modalità di applicazione in territorio francese del politicamente corretto si può rinviare alla lettura di un agilissimo articolo di Sophie Coignard - Emilie Lanez, Le “politiquement correct” à la française, in Le point, 10 giugno 1995, p. 93. | Torna al testo

2 Mino Vignolo, Il lupo cattivo? Un ecologista, in Il Corriere della Sera, 8-7-1994, p. 11. | Torna al testo

3 Antonio Polito, Proibito essere “british”, in la Repubblica, 12-10-2000, p. 1. Un documento che, tra una richiesta e l’altra, non ha alcuna esitazione a dichiarare off limits lo stesso termine british, scottante e scomodissimo portato del pensiero imperialista dell’uomo bianco dei tempo andati. Un uomo bianco che oramai, quando parla alla radio o alla televisione inglese, mostra di aver rinunciato anche all’accento così inequivocabilmente british, ma troppo upper class, accreditato nei college di Oxford e Cambridge: ecco perché anche Tony Blair, «che pure ha studiato a Oxford, in tv adotta un rigoroso “Estaury [sic] English”, senza aspirate e senza “th”, per assomigliare alla middle class che vive e prospera intorno all’Estuario del Tamigi» (Id., p. 44). | Torna al testo

4 Flavio Baroncelli, Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del «politically correct», Roma, Donzelli, 1996, p. VIII sg. | Torna al testo

5 Antonio Castronuovo, Il “politicamente
corretto”
, in Tellus IX 1998, num. 21, pp. 36-37, a p. 36. Sulla nascita del politicamente corretto in seno alle università americane si veda anche Consuelo Angiò, Political Correctness e revisionismo costituzionale, in Studi perugini, II, num. 1, gennaio-giugno 1997, pp. 259-91; per ulteriori generali ragguagli sull’argomento si può rimandare utilmente, anche in questo caso tra molto altro, a Baroncelli, Il razzismo (in cui è confluito anche un precedente intervento: Il linguaggio non offending come strategia di tolleranza, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXIV (1994), pp. 11-56), a un bel volume del 1993 del critico d’arte australiano Robert Hughes tradotto anche in italiano (La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Milano, Adelphi, 19952), a una nota e fortunata raccolta di saggi (Paul Berman (a cura di), Debating p.c.: The Controversy over Political Correctness on College Campuses, New York, Dell, 1992) e, ancora, a Edith Kurzweil – William Phillips, Our Country, Our Culture. The Politics of Political Correctness, Boston, Partisan-Review, 1995 e agli articoli di Paul Berman, Il dibattito sulla Political Correctness e le sue origini, in Marx centouno, 7, settembre 1992, pp. 35-48, Harold K. Bush Jr., A Brief History of PC, with Annotated Bibliography, in American Studies International, num. 33, aprile 1995, pp. 42-64. | Torna al testo

6 Sugli speech codes, e sulla harassment regulation che vi è intimamente connessa, si rimanda a Thomas Grey, Civil Rights Versus Civil Liberties. The Case of Discriminatory Verbal Harassment, in Social Philosophy and Policy, VIII (1991), pp. 1-105, e a due contributi di Nat Hentoff («Speech Codes» on the Campus and Problems of Free Speech, in Berman (a cura di), Debating p.c. cit., pp. 215-224 (ma l’articolo è del 1991) e Free Speech For Me, But Not For Them. How the American Left and Right
Relentlessly Censor Each Other
, New York, Collins, 1992). Singolare la tesi di Stanley Fish che, difendendo a spada tratta gli speech codes, non esita ad affermare che la libertà di parola, di fatto, non esiste in quanto «restriction, in the form of an underlying articulation of the world that necessarily (if silently) negates alternatively possible articulations, is constitutive of expression» (There’s No Such Thing as Free Speech and It’s a Good Thing, Too, in Berman (a cura di), Debating p.c. cit., pp. 231-45, a p. 233). | Torna al testo

7 Castronuovo, Il “politicamente corretto” , p. 36. | Torna al testo

8 Ibid. | Torna al testo

9 Baroncelli, Il razzismo, p. 11 n. | Torna al testo

10 Come, tra i molti altri che si potrebbero citare, i lavori di Nigel Rees, Politically Correct Phrasebook, London, Bloomsbury, 1993, di Edward P. Moser, The Politically Correct Guide to American History, New York, Crown, 1996 e di
Henry Beard - Christopher Cerf, The Official Politically Correct Dictionary and Handbook, New York, Villard Books, 1992 e Sex and Dating: the Official Politically Correct Guide, ibid. 1994. Osserva però giustamente Baroncelli, Il razzismo, p. VIII n. 1, che gli spiritosi «[m]anualetti specializzati in linguaggio p.c. […] possono generare l’impressione che esista una lingua diretta, sincera, trasparente e stabile che i p.c. sono i soli a disturbare. Basta consultare i dizionari di eufemismi, di linguaggio doppio e di slang per capire che quest’immagine è totalmente sbagliata» (anche in questo caso, tra i molti repertori di tal genere disponibili sul marcato, vale la pena di ricordare almeno Judith S. Neaman - Carole G. Silver, Kind Words: a Thesaurus of Euphemisms, New York, Facts of File, 1990, Paul Dickson, Slang! The Topic by Topic Dictionary of Contemporary American Lingoes, New York, Pocket Books, 1995 e, sul double speak, William Lutz, Doublespeak: from «Revenue Enhancement» to «Terminal Living». How Government, Business, Advertisers, and Others Use Language to Deceive You, New York, Harper Perennial, 1990 e l’ancora utile Mario Pei, Double-speak in America, New York, Hawthorn, 1973). | Torna al testo

11 Jon Elster, Argomentare e negoziare, Milano, Anabasi, 1993, p. 78. | Torna al testo

12 Hughes, La cultura del piagnisteo, p. 45. | Torna al testo

13 Ibid. | Torna al testo

14 Baroncelli, Il razzismo, p. 82. | Torna al testo

15 Per rendersi conto di quanto molti estimatori del p.c. siano completamente sprovvisti di sense of humour basterebbe dare un’occhiata alla nutrita aneddotica sull’argomento messa insieme da Richard Bernstein, The Dictatorship of Virtue. Multiculturalism and the Battle for America’s Future, New York, Knopf, 1995 (qualche altro gustoso esempio si può utilmente ricavare anche da Sergio Travaglia, Politically corrept. Il comunista in borghese, Milano, Mursia, 1996, p. 57
sgg.). | Torna al testo

16 Alfred J. Ayer, Cause d’intolleranza, in Susan Mendus - David Edwards (a cura di), Saggi sulla tolleranza, Milano, il Saggiatore, 1990 (or. ingl.: 1987), pp. 113-35, a p. 127. | Torna al testo

17 Hughes, La cultura del piagnisteo, p. 38. | Torna al testo

18 Baroncelli, Il razzismo, p. VII. | Torna al testo

19 Il Messaggero, 31-8-2000, p. 13. | Torna al testo

20 Il sessismo nella lingua italiana, con la collaborazione di Marcella Mariani e la partecipazione alla ricerca di Edda Billi e Alda Santangelo, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 19932 (1a ediz. 1987).
Della stessa Sabatini si ricorderanno ancora, sul tema, le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Per la scuola e l’editoria scolastica, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1986 e l’articolo Occupational Titles in Italian: Changing the Sexist Usage, in Marlis Hellinger (a cura di), Sprachwandel und feministische Sprachpolitik: Internationale Perspektiven, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1985, pp. 64-75. | Torna al testo

21 Sabatini, Il sessismo, p. 103 sg. | Torna al testo

22 Si vedano almeno, tra molti altri, i ragionevoli contributi di Giulio Carlo Lepschy, Sexism and the Italian language, in The Italianist, VII (1987), pp. 158-69 (poi ripubblicato in traduzione italiana, in versione ampliata e col titolo Lingua e sessismo, in Nuovi saggi di linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 61-81) e di Anna Cardinaletti - Giuliana Giusti, Il sessismo nella lingua italiana. Riflessioni sui lavori di Alma Sabatini, in Rassegna italiana di linguistica applicata, XXIII, (1991), pp. 169-189. Tra gli interventi a suo favore, anche qui a tacer d’altro, segnaliamo appena, e soltanto perché piuttosto recente, un abborracciato contributo di Tatjana von Bonkewitz (Lingua, genere e sesso: sessismo nella grammaticografia e in libri scolastici della lingua italiana, in Gianna Marcato (a cura di), Donna & linguaggio, «Convegno Internazionale di Studi, Sappada/Plodn (Belluno), 26-30 giugno 1995», Padova, CLEUP, 1995, pp. 99-110), che definisce Alma Sabatini «la più importante scienziata» (p. 104) in materia di sessismo. | Torna al testo

23 Sabatini, Il sessismo, p. 104. | Torna al testo

24 Sprache und Geschlechter, in Günter Holtus – Michael Metzeltin – Christian Schmitt (a cura di), Lexicon der Romanistischen Linguistik (LRL). IV. Italienisch, Korsisch, Sardisch, Tübingen, Max Niemeyer, 1988, pp. 237-46 (a p. 244). | Torna al testo

25 Italiani razzisti immaginari, in la Repubblica, 4-8-1993, p. 20. | Torna al testo

Leggi il seguito di questo articolo…


Questo articolo si può citare nel seguente modo:
Massimo Arcangeli, La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto (01), in «Italianistica Online», 30 Novembre 2004, http://www.italianisticaonline.it/2004/politicamente-corretto-01/

Questo articolo