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L’italianistica a Zurigo

Posted By Luigi M. Reale On 25/12/2003 @ 12:00 am In Italianistica, Osservatorio | Comments Disabled

Il bando di concorso per la copertura delle cattedre di lingua e letteratura italiana del dell’Università di Basilea e del Politecnico Federale di Zurigo, cattedre che erano state tenute rispettivamente da Ottavio Besomi e Ottavio Lurati, ha suscitato un vivace dibattito sul futuro dell’italianistica in Svizzera.

Rileggiamo un articolo di Daniele Besomi pubblicato nel «Corriere del Ticino» dell’11 novembre 2003

Ambigue strategie - di Daniele Besomi

Dibattiti - Cattedre, concorsi e ambigue strategie. Continua a far discutere il bando per la successione di Besomi a Zurigo

Lo scorso mese di maggio era stata denunciata a più riprese su queste colonne la difficile situazione delle cattedre di lingua e letteratura italiana in Svizzera. Ne aveva offerto lo spunto la malcelata intenzione ( complice il pensionamento dei due titolari Ottavio Besomi e Ottavio Lurati) di sopprimere quel genere d’insegnamento presso il Politecnico di Zurigo e l’Università di Basilea. Nel frattempo le cose si sono mosse almeno per Zurigo, con la pubblicazione di un ambiguo bando di concorso per la successione di Besomi che in ogni caso assai poco spazio lascia alla speranza che l’indirizzo di italianistica possa trovare continuità. Della specifica faccenda ha scritto sul nostro giornale lo stesso Ottavio Besomi lo scorso 30 ottobre e Saverio Snider nell’edizione di ieri. Convinti dell’opportunità di non lasciar cadere l’argomento, che è degno di un dibattito ampio, oggi pubblichiamo alcune riflessioni critiche dell’economista Daniele Besomi, il quale allarga il discorso anche a certe modalità generali dei concorsi universitari nel nostro Paese.

La pubblicazione del bando di concorso per la cattedra che sostituirà quella di letteratura italiana al Politecnico di Zurigo rivela al pubblico un serio problema nella gestione di questa situazione (ma non solo) da parte delle nostre autorità culturali.

Come ha sottolineato la Neue Zürcher Zeitung con tono giustamente scandalizzato e preoccupato il 31 ottobre, tanto il presidente dell’USI quanto il rettore del Politecnico in un’intervista trasmessa dalla RSI hanno più volte evitato di rispondere, a domanda ripetuta, se la nuova cattedra sarà ancora legata all’insegnamento della letteratura italiana. In un’ulteriore dichiarazione rilasciata al Quotidiano della TSI la sera del 31 ottobre, il Prof. Baggiolini riconosceva infine che il bando di concorso è piuttosto vago, e non specifica alcunché riguardo alla lingua italiana. La strategia, spiega il Prof. Baggiolini, consiste nel partire da requisiti generici per attirare un ampio numero di concorrenti, così da avere una base più larga tra cui scegliere. Toccherà poi al (o ai) rappresentanti dell’USI in seno alla Commissione giudicante assicurare che la decisione finale rispetti gli interessi ticinesi.

Apparentemente una strategia di tal fatta sembra garantire una folta presenza di candidature importanti. In realtà, essa è problematica da più punti di vista. Quello più discusso recentemente riguarda la cultura italiana. Un anno fa, gli organi di informazione ticinesi riportavano le dichiarazioni trionfalistiche di Gabriele Gendotti secondo cui l’intervento del suo Dipartimento aveva salvato la Cattedra. Il bando attuale dimostra l’esatto contrario: la Cattedra di lingua e letteratura italiana come originariamente concepita è di fatto soppressa per essere sostituita da un insegnamento non ancora dotato di un volto preciso, e la difesa dell’italianità dipende interamente dal modo in cui la Commissione indirizzerà le proprie scelte (e niente, naturalmente, garantisce a priori che l’italianità la spunti).

E qui sta il secondo problema. Se si ritenesse la cultura italiana una priorità, questa sarebbe espressa in chiari termini nel bando di concorso. Il fatto che non lo sia, rivela di per sé che questa è ormai diventata un’opzione tra altre. L’associazione della cattedra zurighese con l’USI si rivela pertanto essere esclusivamente una manovra di facciata, che permette al Politecnico di poter affermare che la cattedra non è stata sopressa, e alle autorità culturali ticinesi di sostenere che tutto sommato qualcosa si è salvato dallo scempio che ha visto falcidiare le cattedre umanistiche del Poli (letteratura e linga tedesca, francese, romancia e inglese, e quella di storia del Prof. Bergier). Il risultato dell’operazione, peraltro, rischia di essere un altro “professore con la valigia” (peraltro già sovrabbondanti all’USI), che dovendosi sdoppiare finirebbe per non avere le condizioni di formare una scuola né a Lugano né a Zurigo.

Ma non è solamente l’italiano a non più essere una priorità: un bando generico, per definizione, non indica alcuna linea precisa. La conclusione finale è tratta selezionando tra le proposte dei candidati: in altri termini, l’ente universitario rinuncia ad una propria progettualità affidandola invece ai potenziali candidati. Come se, in una gara di tiro al bersaglio, anziché proclamare vincitore chi colpisce più vicino al centro, si lasciasse che i tiratori mirino dove vogliono e si collocasse poi il bersaglio nel punto raggiunto dal tiro ‘migliore’.

Da qui nasce il quarto e ben più grave problema: come si decide qual è il tiro ‘migliore’? Il fatto stesso che si possa concepire una stategia di questo genere rivela che si intende lasciare alla Commissione giudicante dei margini di manovra estremamente ampi: tanto ampi che niente assicura che quello scientifico sia il criterio predominante di scelta. Questioni di opportunità (qualunque esse siano) potrebbero far propendere verso candidati meno qualificati che, per qualsiasi ragione, piacciono maggiormente all’ente che pubblica il concorso. La formazione della Commissione, poi, permette di indirizzare a priori la scelta in un settore ristretto: e questo proprio grazie al fatto che il bando è formulato in modo apparentemente ampio! Non sto, naturalmente, sostenendo che così è (o sarà), ma solo che questa modalità rende concepibili manovre di questo genere: dubbio che un bando di concorso accademico non dovrebbe neppur lontanamente lasciar emergere.

L’USI non è nuova a una tale procedura. La primavera scorsa la sua Fondazione per la Ricerca e lo Sviluppo ha messo a concorso due posti di professore assistente per la ricerca, in base ad un bando estrememente generico che ammetteva la partecipazione per qualsiasi sottodisciplina dell’economia e delle scienze della comunicazione. Tuttavia, al momento della prima selezione di una decina di candidati, tra i criteri di scelta figurava esplicitamente il campo specifico di ricerca, di cui non si faceva menzione alcuna nel bando (e, viceversa, altri criteri menzionati nel bando non sono stati tenuti in considerazione). Ora, ciò ha significato da un lato che candidati appartenenti ad aree di ricerca scartate a posteriori dalla Commissione di preselezione hanno perso tempo per preparare la documentazione e il progetto di ricerca (e non è un lavoro da poco), quando avrebbero potuto farne a meno se avessero saputo che il loro settore non sarebbe entrato in linea di conto. D’altro canto, decidendo a posteriori (con la lista dei candidati sottomano, completa delle loro qualifiche, pubblicazioni e progetti) la Commissione ha avuto gli strumenti per contrapporre all’importanza dei requisiti standard per l’ammissione a posti universitari altri criteri non specificati ufficialmente. In particolare, è sminuito il ruolo delle pubblicazioni scientifiche su riviste di spessore internazionale o di libri presso editori rinomati mondialmente per la loro serietà: criterio quest’ultimo che poggia su verifiche esterne, poiché gli scritti destinati alla pubblicazione in questi ambiti sono soggetti a verifica da parte di due o più relatori incaricati dalle riviste o dagli editori, con un grado di selettività tanto maggiore quanto più importante è la sede dove si pubblica.

Questo problema è molto serio. Una siffatta procedura introduce nei concorsi universitari un grado di arbitrio che non dovrebbero avere. Intendiamoci, i concorsi universitari, in Svizzera come all’estero, non sono mai stati esempi di limpidezza: è naturale che un Professore si adoperi, ponendo il proprio peso accademico nelle appropriate commissioni, per garantire la continuità della propria linea intellettuale attraverso la promozione dei suoi allievi. Ma elevare l’arbitrio a strategia pubblica mi sembra superare il limite. E sarebbe interessante conoscere se e in quale misura l’autorità politica sia consapevole di questa scelta e la avalli.

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